L'ALBERO DELLE STORIE by Shah Saira

L'ALBERO DELLE STORIE by Shah Saira

autore:Shah Saira
La lingua: ita
Format: epub


L'uomo che credeva in Dio

Va' più in alto, osserva lo spirito dell'uomo. Jalaluddin Rumi Era arrivato il momento in cui non potevo più barcamenarmi fra i miei contraddittori mondi di Oriente e Occidente, dovevo scegliere l'uno o l'altro. Al ritorno da Jaji, all'inizio del 1987, lasciai il Peshawar Club e affittai una villetta con Beat. Sapevo che, vivendo con un uomo che non era né mio marito né mio parente, avevo disonorato la mia famiglia. Zio Mirza venne a trovarmi solo una volta nella mia nuova casa. Ero abituata ai suoi pittoreschi arrivi al volante della Toyota zeppa di parenti, cappello inglese piantato di sbieco sulla testa, clacson che strombazza allegramente, il mondo in pugno. Quella volta fu diverso. Venne da solo e a piedi. Vedendolo avanzare adagio lungo il vialetto di accesso lo trovai stranamente discreto e diffidente, come un vecchio perduto in una terra straniera. Si fermò sulla veranda. Mi spiegò che preferiva non entrare: voleva soltanto dirmi un paio di cose. Mi preparai alla tempesta, a sentirmi dire che ero una svergognata e che, se avessi insistito a voler vivere in quel modo, avrei perduto l'affetto e la protezione dei miei parenti. Invece non era lì per quello. Era venuto esclusivamente per parlarmi di Jamil Haidar, l'uomo sul cavallo bianco, colui che aveva simboleggiato per me tutto ciò che vi fosse di nobile nei mujahidin; quel Jamil Haidar che avevo visto annusare le rose in giardino, la cui moglie avevamo salvato e che mio zio aveva aiutato per anni con parte dei propri risparmi. Ebbene, quell'anno i risparmi di zio Mirza si erano esauriti. E Jamil Haidar, furibondo, con la sua banda di mujahidin gli aveva distrutto la casa. Zio Mirza rifiutò la tazza di tè che gli avevo offerto. Dopo avermi comunicato la terribile notizia, si calcò in testa il cappello inglese e, avvilito, si allontanò lungo il vialetto e via dalla mia vita. Il litigio che tanto avevo temuto non c'era stato, ma, mentre guardavo svanire in lontananza la sua cara figura, mi resi conto che lui e io eravamo ormai su due pianeti diversi, le cui orbite ci allontanavano sempre di più. La nuova casa dove abitavo insieme a Beat sorgeva accanto al canale che divideva Peshawar dal campo profughi di Nasirbagh. La finestra della mia stanza mi rendeva testimone dei baratri di disperazione e delle vette di ingegnosità di cui sono capaci gli esseri umani in circostanze avverse. Un giorno, mentre mi trovavo a Nasirbagh, venni accostata da un profugo. Costui si limitò a dirmi: "Signora, ho bisogno di un lavoro per poter dare da mangiare a mia moglie e ai miei bambini. Abbia la cortesia di procurarmene uno." Disse quelle parole col tono di chi chieda un oggetto da quattro soldi al commesso di un emporio. Si chiamava Rahim, e, benché avessi giurato a me stessa che non avrei mai fatto ricorso a personale domestico, qualcosa nei suoi occhi neri mi commosse, e, prima ancora di rendermi conto di quello che facevo, lo avevo assunto.



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