Storia d'Italia, Volume 8, 1936-1943 by Indro Montanelli
autore:Indro Montanelli [Montanelli, Indro]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RCS libri S.P.A.
pubblicato: 2012-11-20T23:00:00+00:00
CAPITOLO PRIMO
IL COLPO DI PUGNALE
La sera del 10 giugno 1940 Vittorio Emanuele III partì da Roma per raggiungere la zona di operazioni. Dove potessero svolgersi queste operazioni non era ben chiaro, dal momento che l'Italia era entrata in guerra con l'intenzione di non farla, almeno contro la Francia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Badoglio, aveva già dato, cinque giorni prima, istruzioni precise: «Il Duce ha detto che è sua intenzione, con la dichiarazione di guerra, di cambiare lo stato di fatto in stato di diritto, ma che intende riservare le Forze Armate, e specialmente l'Esercito e l'Aeronautica, per avvenimenti futuri». In ossequio a questi concetti le unità schierate sulle Alpi Occidentali seppero che «non dovrà essere intrapresa alcuna azione oltre frontiera» e che «truppe e artiglieria non dovranno aprire il fuoco su truppe e posizioni francesi».
Tuttavia, per un impeto nostalgico, il Re volle essere vicino al fronte, nell'illusione di ritrovare l'atmosfera degli anni, ormai lontani, della prima guerra mondiale. Si trasferì dunque nel castello di Ternavasso, proprietà dei Thaon di Revel, tra Poirino e Carmagnola. Uno stuolo di ufficiali lo seguì, e lo stesso duca Acquarone, ministro della Real Casa, smise i suoi severi abiti civili per indossare l'uniforme di colonnello di cavalleria.
Dal castello Vittorio Emanuele partiva ogni mattina, in gambali e, quando l'aria di montagna diventava pungente, in cappottone, per visitare reparti dove, secondo un'annotazione del suo aiutante di campo generale Puntoni, il morale dei soldati era «ottimo», i visi «allegri», ma «lasciava a desiderare la disciplina formale» ed «era carente l'azione degli ufficiali inferiori». A Pocapaglia si era insediato il Quartier generale di Umberto di Savoia, comandante del gruppo armate ovest. Il trasferimento del Re, e la sua istintiva preferenza per un fronte e un tipo di guerra che avessero analogie con il '15-'18 furono patetici e rivelatori. Mentre le colonne corazzate tedesche calavano verso Parigi, il Comando italiano pensava, tutt'al più, a battaglie di posizione: anzi, per quanto riguardava il fronte occidentale, aveva rinunciato anche a quelle, dopo la decisione di Mussolini che si era tradotta in una sorta di accordo sottobanco tra Badoglio e l'addetto militare francese a Roma Parisot, suo vecchio amico fin dai tempi di Vittorio Veneto. I francesi avevano promesso di non muoversi, a loro volta, se non si fossero mossi gli italiani.
Il gruppo armate ovest era il più forte, tra quelli di cui si componeva l'esercito. Diviso in due armate (la 4' di Guzzoni dal San Bernardo al monte Granerò e la la di Pintor dal monte Granerò al mare) poteva contare su 22 divisioni, oltre a vari raggruppamenti speciali. In totale 12.500 ufficiali e 300 mila uomini di truppa. Al confronto il gruppo armate est del generale Grossi, con la 2a armata di Ambrosio da Tarvisio a Fiume, la 6a armata di Vercellino nella pianura padana, e l'8a armata del Duca di Bergamo in Veneto e in Romagna, era debole e incompleto: 8.500 ufficiali e 195 mila uomini, con venti divisioni a organici ridotti. Il maresciallo De Bono comandava il
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