Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza) by Giorgio Agamben
autore:Giorgio Agamben [Agamben, Giorgio]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: eBook Laterza
ISBN: 0
editore: Editori Laterza
pubblicato: 2020-04-25T16:00:00+00:00
17. Come comprendere questa doppia valenza (bene-dicente e male-dicente) dei nomi divini nel giuramento e nello spergiuro? Vi è un istituto che vive da sempre in così stretta intimità con lo spergiuro e la maledizione da essere spesso confuso con essi e che può forse fornirci la chiave per una loro corretta interpretazione. Si tratta della bestemmia. Nello studio sul La blasphémie et l’euphémie (in origine una conferenza tenuta a un colloquio dedicato significativamente al nome di Dio e all’analisi del linguaggio teologico), Benveniste si riferisce spesso alla prossimità fra la bestemmia, lo spergiuro e il giuramento (in francese evidente nella paronimia juron: jurer):
“Fuori del culto, la società esige che il nome di Dio sia invocato in una circostanza solenne, che è il giuramento. Il giuramento è, infatti, un sacramentum, un appello rivolto al dio, testimone supremo della verità, e una devozione al castigo divino in caso di menzogna o spergiuro. È l’impegno più grave che un uomo possa assumere e la mancanza più grave che egli possa commettere, poiché lo spergiuro appartiene non alla giustizia degli uomini, ma alla sanzione divina. Per questo il nome del dio deve figurare nella formula del giuramento. Anche nella blasfemia il nome di Dio deve apparire, perché, come il giuramento, la blasfemia prende Dio a testimone. La bestemmia [juron] è un giuramento, ma un giuramento di oltraggio” (Benveniste [3], p. 256).
Benveniste sottolinea, inoltre, la natura di interiezione propria della bestemmia, che, come tale, non comunica alcun messaggio:
“La formula blasfema proferita non si riferisce ad alcuna situazione oggettiva particolare; la stessa bestemmia è pronunciata in circostanze del tutto diverse. Esprime soltanto l’intensità di una reazione alle circostanze. Nemmeno si riferisce a una seconda o a una terza persona. Non trasmette alcun messaggio, non apre alcun dialogo, non richiede risposta, la presenza di un interlocutore non è necessaria” (ibid.).
Tanto più sorprendente è che, per spiegare la bestemmia, il linguista metta da parte l’analisi del linguaggio e, in uno dei rari ricorsi alla tradizione ebraica, rimandi all’“interdetto biblico di pronunciare il nome di Dio” (ivi, p. 254). La bestemmia è, certo, un atto di parola, ma si tratta, appunto, di “sostituire il nome di Dio col suo oltraggio” (ivi, p. 255). L’interdizione non ha, infatti, a oggetto un contenuto semantico, ma la semplice pronuncia del nome, cioè una “pura articolazione vocale” (ibid.). Subito dopo, una citazione da Freud introduce a una interpretazione della bestemmia in termini psicologici:
“L’interdizione del nome di Dio serve a reprimere uno dei desideri più intensi dell’uomo: quello di profanare il sacro. È noto che il sacro ispira condotte ambivalenti. La tradizione religiosa ha voluto conservare il sacro divino e escludere quello maledetto. La bestemmia cerca, a suo modo, di ristabilire la totalità, profanando lo stesso nome di Dio. Si bestemmia il nome di Dio, perché tutto ciò che di Dio possediamo è il suo nome” (ibid.).
Da parte di un linguista abituato a lavorare esclusivamente sul patrimonio delle lingue indoeuropee, il ricorso a un dato biblico è quanto meno singolare (come lo è anche la spiegazione psicologica di un fatto linguistico).
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