Odissea by Ippolito Pindemonte

Odissea by Ippolito Pindemonte

autore:Ippolito Pindemonte [Pindemonte, Ippolito]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2011-12-15T08:38:41+00:00


LIBRO TREDICESIMO

Stavansi tutti per l’oscura sala Taciti, immoti, e nel diletto assorti.

Così al fine il silenzio Alcinoo ruppe:

“Poiché alla mia venisti alta e di rame Solido e liscio edificata casa,

No, Ulisse, non cred’io che al tuo ritorno L’onde t’agiteran, comunque afflitto T’abbia sin qui co’ suoi decreti il fato.

Voi, tutti, che vôtar nel mio palagio Del serbato ai più degni ardente vino Solete i nappi, ed ascoltare il vate, L’animo a quel ch’io vi dichiaro, aprite.

Le vesti e l’oro d’artificio miro, E ogni altro don, che de’ Feaci i capi Recâro al forestier, l’arca polìta Già nel suo grembo accolse. Or d’un treppiede Anco e d’un’urna il presentiam per testa; Indi farem che tutta in questi doni, Di cui male potremmo al grave peso Regger noi soli, la città concorra”.

Disse; e piacquero i detti, e al proprio albergo Ciascun le piume a ritrovar si volse.

Ma come del mattin la bella figlia Aperse il ciel con le rosate dita, Vêr la nave affrettavansi, portando Il bel, che onora l’uom, bronzo foggiato.

Lo stesso re, ch’entrò per questo in nave, Attentamente sotto i banchi il mise, Onde, mentre daran de’ remi in acqua, Non impedisse alcun de’ Feacesi

Giovani, e l’offendesse urna o treppiede.

Né di condursi al real tetto, dove La mensa gli attendea, tardaro i prenci.

Per lor d’Alcinoo la sacrata possa Un bue quel giorno uccise al ghirlandato D’atre nubi Signor dell’Universo.

Arse le pingui cosce, un prandio lauto Celebran lietamente; e il venerato Dalla gente Demodoco, il divino

Cantor, percuote la sonante cetra.

Ma Ulisse il capo alla dïurna lampa Spesso torcea, se tramontasse al fine; Ché il ritorno nel cor sempre gli stava.

Quale a villan, che dalla prima luce Co’ negri tori e col pesante aratro Un terren franse riposato e duro, Cade gradito il Sole in occidente, Pel desìo della cena, a cui s’avvia 163

Con le ginocchia, che gli treman sotto: Tal cadde a Ulisse in occidente il sole.

Tosto agli amanti del remar Feaci, E al re, più che ad altrui, così drizzossi:

“Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso Mandatemi; e gl’iddii vi guardin sempre.

Tutti ho già i miei desir: pronta è la scorta, E della nave in sen giacciono i doni, Da cui vogliano i dèi che pro mi vegna.

Vogliano ancor, che in Itaca l’egregia Consorte io trovi, e i cari amici in vita.

Voi, restandovi qui, serbate in gioia Quelle, che uniste a voi, vergini spose, E i dolci figli che ne aveste: i numi V’ornin d’ogni virtù, né possa mai I dì vostri turbar pubblico danno”.

Tacque; e applaudìa ciascuno, e molto instava Si compiacesse allo stranier, da cui Uscita era sì nobile favella.

Ed Alcinoo all’araldo allor tai detti:

“Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro Porgilo, acciò da noi, pregato Giove, S’accommiati oggimai l’ospite amico”.

Mescé l’araldo il vino, e il porse in giro; E tutti dai lor seggi agl’immortali Numi libaro. Ma il divino Ulisse Sorse, e d’Arete in man gemina pose Tazza rotonda, e tai parole sciolse:

“Vivi felici dì, Regina illustre, Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte, Comun retaggio degli umani.



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