Pecoranera by Devis Bonanni

Pecoranera by Devis Bonanni

autore:Devis Bonanni
La lingua: ita
Format: mobi, epub
Tags: originale
editore: Marsilio
pubblicato: 2012-01-25T23:00:00+00:00


La preghiera del ciclista

«Puoi cambiare il telaio» suggerì questo mio amico, ciclista da sempre. Visualizzai quella soluzione con orrore. «Ma non sarebbe più lei» obiettai. «Che altro ci vuoi fare, sarà difficile trovare qualcuno che te la saldi.»

Si parlava di una bicicletta. Della mia bicicletta, che se ne stava ora su un trespolo, immobile, con un’incrinatura al telaio. Che paradosso, pensai, e presi un appunto sul mio taccuino. «In un’epoca in cui il nuovo si sovrascrive continuamente al vecchio, in cui l’usa e getta è esteso anche alle emozioni, che paradosso: la “morte” di un oggetto provoca in me tanto avvilimento.» Quella bicicletta era diventata da tempo una compagna inseparabile.

Due anni prima sedevo sul lettino di uno studio ortopedico. Il dottore scosse la testa appena scoprii le ginocchia. «Hai le rotule orientate verso l’esterno.» Pronunciò quelle parole come una condanna a morte. Vedendomi annaspare senza appigli per stabilire la misura di quella sentenza, il dottore proseguì: «Puoi continuare a correre ma devi limitare la frequenza degli allenamenti e fare attenzione al fondo.»

Correvo molto allora, quattro o cinque volte alla settimana, anche due ore per volta. Correvo forte. Un amore, quello per il podismo, nato per caso. Avevo persino accarezzato l’idea di correre una mezza maratona ma poi le ginocchia iniziarono a dolermi. L’ortopedico propose terapie al laser e cure antinfiammatorie. Dalla mia espressione capì che non era proprio il caso di fare ipotesi del genere. Infine, quasi scusandosi, disse: «Bici, puoi andare in bici.»

Due settimane più tardi uscivo da un negozio con quella bicicletta che un giorno mi avrebbe fatto soffrire la paura di una perdita definitiva. «Torni a casa in bici?» Lo disse scherzando, il commesso, senza neppure la pretesa di una risposta. Il negozio distava una sessantina di chilometri da casa mia. «Sì che ci torno in bici, a casa.» Un sorriso come per dire che l’aveva capito che stavo scherzando, anche se nella mia risposta aveva letto una vena di sfida. Saltai in sella e presi la strada di casa.

La frase buttata là dal dottore aveva messo in moto una “ragionevole follia”. Prima della visita avevo preso l’abitudine di percorrere brevi distanze a piedi, cinque o dieci chilometri, non di più. Spostarsi a piedi è però di una lentezza esasperante, troppo anche per il più radicale dei camminatori. Lo si può fare come passatempo o come sporadico atto di rivolta contro la violenza della velocità contemporanea, ma alla lunga non può funzionare. Facendo quattro conti, con la bicicletta potevo ragionevolmente sperare di moltiplicare per quattro la velocità di spostamento e aumentare di conseguenza il mio raggio d’azione. Non salivo su una bici dai tempi della scuola. Poco importa, mi dissi, ho gambe buone per correre, avrò altrettanta forza per pedalare. E se un giorno fossi riuscito a fare a meno dell’auto? «Autarchia del movimento» scrissi sul mio taccuino. Autoprodurre lo spostamento del proprio corpo nello spazio, la logica estensione dell’autosufficienza alimentare.

In quell’estate scoprii la nobile pratica del ciclismo, che non si risolve, come molti pensano, nel semplice atto della pedalata.



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