Quando la pittura parla: Retoriche gestuali e sonore nell'arte by Macioce Stefania

Quando la pittura parla: Retoriche gestuali e sonore nell'arte by Macioce Stefania

autore:Macioce Stefania [Stefania, Macioce]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Art, General, History, Techniques, Painting
ISBN: 9788849242256
Google: qciBDwAAQBAJ
Amazon: B07MDLCFRF
editore: Gangemi Editore
pubblicato: 2018-04-10T22:00:00+00:00


162 Baiocco (2016) 2017.

163 Trenta, 1822, p. 142.

164 Baiocco (2016) 2017.

165 Ottani Cavina, 1977; Sgarbi, 2012.

166 Come se oggi in una pausa di una prova alla Cappella Sistina si mettessero a suonare una canzonetta.

167 Banchieri, 1609, pp. 14-16; Idem, 1628, 65, 66

I.

Signum Harpocraticum: dinamiche significanti per un codice figurativo

Secretum [?] atque liberum arbitris locum et quam altissimum silentium

scribentibus maxime convenire nemo dubitaverit.

Quintiliano, Institutio oratoria, X, 3 ,12

La graziosa scultura in bisquit di porcellana dura, realizzata da Boizot e Le Riche nel 1796, riproduce Arpocrate1: il dito sulle labbra è quello di colui che ermeticamente conosce e nasconde, affinché altri indaghino per raggiungere il sapere antico e la conoscenza. Egli allude al silenzio, indispensabile per comprendere e svelare i misteri, secondo le avvertenze della filosofia ermetica. Diffuso nella tradizione occidentale e sin dall’antichità, il signum harpocarticum, di probabile origine dall’egiziano Horus fanciullo, è dunque il segno del silenzio, del mistero iniziatico, dell’assenza di parola2. Il giovane adolescente dal volto imberbe, colto nell’atto di portare alla bocca l’indice sinistro, formula il «gesto del silenzio» in ossequio alla codificazione antica, riferita nell’età moderna da Giovanni Bonifacio3 che, ricollegandosi a Varrone, riporta l’identificazione egiziana con Arpocarte. Entrato a far parte del pantheon greco e poi romano, la divinità viene descritta da Ovidio come «quique premit vocem digitoque silentia suadet»4, per la sua misteriosa attitudine. Nell’arte romana Arpocrate appare come un giovane Eros, nudo o semplicemente drappeggiato da un panno, munito di ali e faretra, a volte cinto sulla testa da una corona di edera o da una fascia, e immortalato in una posa prassiteliana, che spesso giustifica la presenza di un tronco d’albero o di un supporto sotto al braccio sinistro. Il gesto della divinità viene interpretato in funzione attributiva o espressiva, tanto da far luce a sufficienza sulle complessità sottese alla decodificazione del linguaggio gestuale che, solo in apparenza, si rivela immediato. Riferendosi ai quadri, Diderot, in un brano della sua Lettera sui sordomuti (1751)5, sostiene che l’osservatore debba porsi di fronte a un dipinto come a un sordo che si trovasse ad assistere a un dialogo tra muti; in realtà questa è una condizione in cui è posto qualsiasi osservatore di un’opera d’arte, chiamato a interpretare un codice linguistico dissimile rispetto a quello con cui è solito esprimersi. Nel silenzio delle immagini si avverte la presenza di Arpocrate, del suo silenzio carico di senso, del suo logos taciturno e al contempo eloquente, che non è suono, eppure è comunicazione. Il silenzio allude ad altro, richiede una condizione indispensabile all’ascolto e apre alla comunicazione interiore, al lógos endiáthetos6.

Decrittare il silenzio dei gesti e la trama di discorsi non pronunciati, rinvia ad un ordito che attiene alle codificazioni dell’arte retorica e accade che i protagonisti delle opere d’arte siano latori di parole, essi dialogano attraverso una muta eloquenza che rappresenta, esprime e dunque parla7.

Il dio del silenzio, di antica origine egizia, è una figura sincretica, identificata con il fanciullo Har-pe-Krat che raffigura Horus bambino, distinto da Haroeris, ovvero Horus il Grande, figlio di Iside e Osiride, e incarna l’aspetto di due divinità.



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