Storia D'Italia vol. 01-05 by Indro Montanelli
autore:Indro Montanelli
La lingua: ita
Format: mobi
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00
CAPITOLO SETTIMO.
I SUOI DIVERTIMENTI.
QUANDO Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo successore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè era festa un giorno sì e uno no. Esse venivano celebrate coi ludi scenici e coi giuochi atletici. I ludi scenici non erano più il classico dramma, pomposo e solenne, estintosi, dopo una breve stagione, molto più rapidamente di quanto non fosse nato. C'è qualcosa nell'aria non solo di Roma, ma di tutta Italia, che le rende piuttosto allergiche al teatro. Drammi si continuò a scriverne anche in questo primo secolo d'Impero ma come esercitazioni poetiche che trovavano qualche ascoltatore nei salotti in cui l'autore le leggeva, non spettatori nei teatri e attori per interpretarle. Un pubblico rozzo, composto in buona parte di stranieri che conoscevano soltanto un latino elementare, preferiva la pantomima in cui la trama è resa evidente non dalla parola, ma dal gesto e dalla danza. Si formò allora quella tradizione del "gigione", grossolano, volgare, che arrota gli occhi, che smorfieggia, gesticoloso, cui ancora oggi i nostri attori si ispirano. Roma ebbe i suoi Totò e Macario in Esopo e Roscio, le vedettes di quel tempo, che commettevano stravaganze per farsi pubblicità , mandavano in delirio le platee coi loro sketches scollacciati e pieni di doppi sensi, diventarono i "cocchi nostri" dei salotti aristocratici, si prendevano per amanti le gentildonne più in vista, guadagnavano fior di milioni e lasciavano in eredità dei miliardi. Essi avevano ora nelle loro compagnie anche delle donne, le girls del tempo, che venendo a causa di questa professione ufficialmente equiparate alle prostitute, non avevano più nulla da perdere in fatto di pudore e contribuivano senza ritegno alla oscenità degli spettacoli. La libidine dell'applauso spesso portava questi interpreti a rappresentare scene colme di allusioni politiche in barba alla censura, come sempre capita nei regimi di tirannia, quando nessuno osa dir qualcosa, ma tutti vanno in visibilio per chi lo fa. La sera dei funerali di Vespasiano, un attore ne parodiò il cadavere drizzandosi nella bara e chiedendo ai beccamorti: «Quanto costa questo trasporto?». «Dieci milioni di sesterzi». «Bè, datemene centomila», rispose il cadavere, «e buttatemi nel Tevere». Che era, bisogna riconoscerlo, un'uscita in tono col carattere del defunto. All'empio andò bene, perché il successore era Tito. Ma pochi anni prima Caligola aveva fatto bruciar vivo l'autore d'un'allusione molto più timorata. Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà , sempre più cresceva la fortuna del Circo. Cartelli murali come quelli che oggi annunziano i film, annunziavano gli spettacoli atletici. Essi costituivano l'argomento del giorno, se ne discuteva appassionatamente in famiglia, a scuola, nel Foro, alle Terme, in Senato, e perfino il giornale, Acta diurna, ne faceva la presentazione e la recensione. Il giorno delle gare, folle di centocinquanta o duecentomila persone si avviavano al Circo Massimo, come oggi allo stadio, recando fazzoletti coi colori della squadra del cuore, e i maschi facendo sosta, prima di entrare, nei bordelli che si allineavano ai lati degl'ingressi.
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