Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento (Italian Edition) by Paolo Viola

Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento (Italian Edition) by Paolo Viola

autore:Paolo Viola [Viola, Paolo]
La lingua: ita
Format: epub
Amazon: B077F5DTTG
editore: Einaudi
pubblicato: 2015-12-02T00:00:00+00:00


7. La crisi dell’Impero cinese.

A differenza dell’India e dell’Europa, la Cina era da secoli unificata in una formazione statale di antichissime e solide tradizioni: il Celeste Impero. Per gli inglesi o per le altre potenze coloniali europee si trattava di un gigante difficile da attaccare direttamente, ma anche di un mercato potenzialmente sterminato. Inoltre era da sempre il luogo di produzione delle sete e delle porcellane fra le piú pregiate del mondo.

Il punto forte della Cina era la sua straordinaria solidità burocratica e amministrativa e la sua tradizione confuciana di grande monarchia centralizzata ed efficiente. Nel Settecento era stata addirittura indicata a modello per l’Europa da alcuni intellettuali: quelli che ritenevano che le riforme dovessero essere fatte autoritariamente dall’alto, sulla base dell’efficienza e dell’onestà dei governanti. L’antico maestro cinese Confucio, vissuto tra il secolo VI e il V a.C., aveva insegnato che non le leggi, che incutono paura della punizione, ma la virtú, che provoca vergogna per la trasgressione, può migliorare l’uomo. Tuttavia si era dovuto ammettere che la virtú non è per tutti; che solo i migliori hanno titolo a governare; e che unicamente attraverso lo studio è possibile accedere a quella virtú che dà diritto al potere.

Il confucianesimo era diventato la religione laica dell’impero, retto da una burocrazia reclutata con prove scritte e orali difficilissime da superare; quando invece in Europa si apparteneva all’aristocrazia unicamente per nascita. In Cina gli esami dovevano selezionare gli uomini dotati di cultura confuciana, quindi di virtú, e perciò legittimati a governare. Gli alti e potenti burocrati, coltissimi e dunque ipoteticamente virtuosi – i «mandarini» – provenivano di solito dalle classi elevate, poiché gli studi costano, ma non necessariamente, e infatti ve n’erano sempre stati anche di umili origini. Non erano comunque personalmente legati da un vincolo familiare di appartenenza aristocratica o di fedeltà al monarca, come era avvenuto nella maggioranza dei casi in Occidente. Erano invece esponenti di un’élite del talento, vasta e culturalmente omogenea, che aveva nei secoli profondamente unificato l’immenso paese.

Il punto debole era l’impreparazione culturale dell’Impero cinese ad affrontare grandi novità. La dinastia Qing al potere da duecento anni era originaria delle steppe del Nord. Veniva cioè dalla frontiera che aveva dovuto contenere per secoli le aggressioni contro l’impero provenienti dai barbari mongoli e turchi, abitanti di quelle stesse steppe. La Cina si trovava ora da quel lato a diretto contatto con l’Impero russo, con cui la comprensione reciproca era comunque possibile. Si trattava infatti di due vastissimi imperi, per certi aspetti confrontabili: entrambi assai chiusi, rigidamente centralizzati, e controllati in tutt’e due i casi da un’autorità imperiale legittimata dalla volontà celeste. L’oligarchia cinese era invece molto estranea ai problemi commerciali e marittimi che interessavano la Cina meridionale, una regione diversissima e lontanissima da Pechino, capitale dell’impero.

Il governo cinese era portato dunque a non capire, o a sottovalutare drammaticamente, il pericolo costituito dai mercanti europei padroni dei traffici dell’Oceano Indiano. D’altra parte questi mercanti stranieri destabilizzavano socialmente la Cina. Provocavano nelle province meridionali uno sviluppo mai visto delle manifatture



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