The Inferno of Dante by Dante

The Inferno of Dante by Dante

autore:Dante
La lingua: eng
Format: epub
ISBN: 9781466878471
editore: Farrar, Straus and Giroux


CANTO XXIII

Taciti, soli, sanza compagnia

n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,

come frati minor vanno per via.

Vòlt’ era in su la favola d’Isopo

lo mio pensier per la presente rissa,

dov’ el parlò de la rana e del topo;

ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’

che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia

principio e fine con la mente fissa.

10 E come l’un pensier de l’altro scoppia,

così nacque di quello un altro poi,

che la prima paura mi fé doppia.

Io pensava così: ‘Questi per noi

sono scherniti con danno e con beffa

sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,

ei ne verranno dietro più crudeli

che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

Già mi sentia tutti arricciar li peli

20 de la paura e stava in dietro intento,

quand’ io dissi: «Maestro, se non celi

te e me tostamente, i’ ho pavento

d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;

io li ’magino sì, che già li sento».

E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,

l’imagine di fuor tua non trarrei

più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,

con simile atto e con simile faccia,

30 sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

S’elli è che sì la destra costa giaccia,

che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,

noi fuggirem l’imaginata caccia».

Già non compié di tal consiglio rendere,

ch’io li vidi venir con l’ali tese

non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di sùbito mi prese,

come la madre ch’al romore è desta

e vede presso a sé le fiamme accese,

40 che prende il figlio e fugge e non s’arresta,

avendo più di lui che di sé cura,

tanto che solo una camiscia vesta;

e giù dal collo de la ripa dura

supin si diede a la pendente roccia,

che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

Non corse mai sì tosto acqua per doccia

a volger ruota di molin terragno,

quand’ ella più verso le pale approccia,

come ’l maestro mio per quel vivagno,

50 portandosene me sovra ’l suo petto,

come suo figlio, non come compagno.

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto

del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle

sovresso noi; ma non li era sospetto:

ché l’alta provedenza che lor volle

porre ministri de la fossa quinta,

poder di partirs’ indi a tutti tolle.

Là giù trovammo una gente dipinta

che giva intorno assai con lenti passi,

60 piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi

dinanzi a li occhi, fatte de la taglia

che in Clugnì per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;

ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,

che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!

Noi ci volgemmo ancor pur a man manca

con loro insieme, intenti al tristo pianto;

70 ma per lo peso quella gente stanca

venìa sì pian, che noi eravam nuovi

di compagnia ad ogne mover d’anca.

Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi

alcun ch’al fatto o al nome si conosca,

e li occhi, sì andando, intorno movi».

E un che ’ntese la parola tosca,

di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,

voi che correte sì per l’aura fosca!

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».

80 Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta,

e poi secondo il suo passo procedi».



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