Gli Ultimi Giorni di Pompei by Edward Bulwer-Lytton

Gli Ultimi Giorni di Pompei by Edward Bulwer-Lytton

autore:Edward Bulwer-Lytton
La lingua: ita
Format: epub, mobi
Tags: Narrativa storica, Narrativa Straniera, Romanzo, Romanzo Storico, PurrosoBook
ISBN: 0025817-8
editore: Oscar Mondadori - Fabbri Editori
pubblicato: 1985-01-01T05:00:00+00:00


Capitolo IX

Tempesta nel Sud. L'antro della Strega

Allorché il calore del meriggio prese gradatamente a dileguare, Glauco e Ione uscirono per godere l’aria rinfrescata e balsamica. A quell’epoca i Romani solevano adoperare vari tipi di veicoli: quello più in voga fra i cittadini facoltosi, per escursioni senza compagni, era la biga, già descritta in precedenza; alle matrone invece era più adatto il così detto carpentum, generalmente a due ruote. Gli antichi usavano inoltre una specie di lettiga o vasta portantina, più comoda di quella moderna, poiché consentiva di sdraiarsi a bell’agio, invece di lasciarsi scrollare dall’alto in basso; capace di contenere comodamente varie persone, e munita di una copertura pieghevole. Per quanto diversa nella forma, essa corrispondeva, come uso, alla moderna britska. Fu in una di tali vetture che gli amanti presero posto, accompagnati soltanto da una schiava. A circa dieci miglia dalla città sorgeva a quei tempi un antico rudere, relitto di un tempio evidentemente greco; e siccome per i due innamorati tutto ciò che ricordava la Grecia emanava un dolcissimo fascino, essi avevano scelto quel tempio quale meta della loro gita.

Tra vigne ed oliveti, la strada saliva serpeggiando verso la sommità del Vesuvio, diventando man mano un impervio sentiero. I muli procedevano a stento e lentamente; e ad ogni schiarita della foresta apparivano quelle irte e grigie caverne, già descritte da Strabone, che le varie evoluzioni del tempo, nonché le eruzioni vulcaniche, hanno ormai cancellato dal panorama. Il sole, avviandosi verso il tramonto, gettava sulle cime ombre lunghe e profonde; di quando in quando il rustico zufolo del pastore risuonava tra i gruppi di betulle e di querce selvatiche. Talvolta si poteva intravedere la graziosa sagoma della capello, dal morbido mantello, dalle corna arcuate e i brillanti occhi grigi, che, brucando tuttora l’erba montana sotto i cieli di Ausonia, riportava il pensiero alle egloghe di Virgilio. Tra i penduli festoni di pampini appesi fra un albero e l’altro, l’uva splendeva vermiglia, già tinta dal sorriso dell'estate inoltrata. In alto, nubi leggere fluttuavano nei cieli sereni, spazzando il firmamento con tale lentezza che appena sembravano muoversi; mentre a mano destra la vista carpiva ogni tanto bagliori di un mare senz’onde, appena sfiorato alla superficie da qualche leggero naviglio; e la luce del sole si frangeva sui flutti in quelle infinite e soavi sfumature caratteristiche di quel mare leggiadro.

«Quanto è bella l'espressione per cui chiamiamo la terra nostra madre!» mormorò Glauco. «Con quale tenero amore essa profonde le sue benedizioni su tutti i suoi figli! Persino in queste sterili lande cui la natura ha negato il dono della bellezza, essa trova modo di prodigare i suoi doni: guarda come avvince la vigna al corbezzolo sul suolo arido e brullo di questo vulcano estinto. Sì, in un’ora simile, davanti a un simile spettacolo, ben potremmo immaginare che il ridente volto del Fauno debba far capolino tra questi verdi festoni; oche sia possibile rintracciare le orme di una Ninfa alpestre traverso il folto labirinto del bosco. Ma le Ninfe scomparvero, o bella Ione,



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