I giorni del giudizio by Sabina Colloredo

I giorni del giudizio by Sabina Colloredo

autore:Sabina Colloredo [Colloredo, Sabina]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RIZZOLI LIBRI
pubblicato: 2021-01-20T12:00:00+00:00


1969

1

A scuola, durante le lezioni, non avevo modo di chiarirmi con Elettra.

Se cercavo di avvicinarla mi scansava. Sapevo di essere stata irruente e insensibile, ma non avevo più voglia di perdere tempo a interrogarmi sulle relazioni umane. La lasciai perdere, sperando che le passasse, ma dopo settimane eravamo ancora allo stesso punto. Lei da una parte e io dall’altra.

Durante le vacanze di Pasqua la aspettai sotto il portone di casa e quando la vidi uscire, le andai incontro con un fiore in mano. Mi guardò corrucciata, le sorrisi e ci buttammo una nelle braccia dell’altra.

«Perdonami» le dissi.

Ma in realtà non era così. Ero io che non avevo perdonato lei per quel che mi aveva rinfacciato. L’amicizia di Elettra mi serviva come copertura. Per sembrare una ragazza qualsiasi. Soprattutto a me stessa.

Il fatto che papà tornasse a casa ogni sera diede un equilibrio a tutta la famiglia.

«Sarà diventato meno importante» consideravo preoccupata insieme alla Marina, perché, inutile negarlo, quell’importanza che contestavo nelle piazze, in casa mi dava una certa sicurezza.

Quando entrava ed esclamava Sento stridere i germi!, tiravo un sospiro di sollievo. La parte di me che stava rompendo gli argini si ricomponeva. Tornavo la ragazzina che pensava innanzitutto allo studio e quando avevo l’acqua alla gola gli chiedevo di darmi una mano e facevamo le versioni di greco insieme. Mi stupiva come si ricordasse tutto alla perfezione a distanza di tanti anni. È che papà aveva studiato, studiato profondamente, perché dai suoi studi dipendeva il futuro della sua famiglia, la mamma vedova e due sorelle. Non aveva potuto certo prendere la scuola alla leggera come facevo io. Lo ammiravo. Lo ammiravo immensamente quando districava il garbuglio del greco in un testo che risuonava come una musica. Anche se apparteneva, e io con lui, a quella borghesia che contestavo insieme ai compagni operai, comprendevo che lui se li era guadagnati tutti quei privilegi, che poi, per quel che lo riguardava, in fondo cos’erano? Lavoro duro per dieci, dodici ore al giorno, responsabilità sfiancanti, contestazioni e quel senso strisciante di un pericolo che incombeva e che avrebbe potuto spazzare via ogni stabilità da un momento all’altro.

Una sera, mentre guardavamo in tivù uno sceneggiato che ci appassionava e che si intitolava La freccia Nera, papà si addormentò. La testa gli si reclinò di lato e il viso assunse un’espressione sconfitta. Da che avevo memoria, mio padre mi era sempre apparso vigile, pronto ad affrontare qualsiasi situazione, anche nel sonno. Quando lo vidi abbandonarsi come un vecchietto qualsiasi, travolto da un’esigenza del corpo che non riusciva più a controllare, mi prese una paura folle. La paura che fosse vulnerabile e mortale come ogni altro essere umano. Appoggiai piano la testa sulla sua spalla, attenta a non svegliarlo, l’orecchio accostato al cuore che ticchettava.

«Non morire, papà» gli sussurrai, sperando che qualcosa gli arrivasse, di quella mia supplica, nei lontani territori del sogno.

Con il ritorno di papà, zio Poldi diventò un commensale fisso alla nostra tavola. Comprese al volo la nuova situazione, gli estremismi opposti miei



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