La libraia di Auschwitz by Dita Kraus

La libraia di Auschwitz by Dita Kraus

autore:Dita Kraus [Kraus, Dita]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Newton Compton Editori
pubblicato: 2020-12-18T23:00:00+00:00


Parte terza

1945 – XXI secolo

Capitolo ventisei

Prime settimane a Praga

Il treno raggiunse Praga a mezzogiorno del 1 luglio. Ed eccomi là, nella mia città natale, sola, senza padre né madre, ad appena due settimane dal mio sedicesimo compleanno.

Alla stazione principale, il nostro gruppo fu ricevuto da due addetti dell’Ufficio rimpatri. Consegnarono a ciascuno di noi una carta di identità rosa e portarono quelli che non avevano un posto dove stare in un albergo nelle vicinanze. Io lasciai là i miei due fagotti e andai a cercare zia Manya.

Ricordavo quale tram prendere per andare verso il quartiere di Podolí, ma non avevo soldi per il biglietto. Mostrai al conducente la tessera di rimpatrio rosa e lui disse che non dovevo pagare. La gente mi guardava in modo bizzarro e mi resi conto che dovevo sembrare strana, ma non capivo perché. Credevo non ci fossero segni visibili sulla mia persona che giustificassero quegli sguardi. Immaginai che fosse per il modo in cui ero vestita, con gli stivali di gomma e l’impermeabile in piena estate. Solo molto più tardi qualcuno mi disse che nella mia espressione, soprattutto negli occhi, c’era qualcosa di indefinito che rivelava la devastazione lasciata dagli anni trascorsi a Terezín, Auschwitz e Bergen-Belsen.

Salii le scale per raggiungere il piccolo appartamento di Manya e suonai il campanello. La porta si aprì e mi trovai di fronte mia zia. Non mi riconobbe. L’ultima volta che mi aveva visto ero una bambina di tredici anni e adesso ero un’adulta di sedici.

«Sì?», domandò.

Non riuscivo a rispondere.

«Dita?», chiese, esitante. Annuii.

Scrutò le scale alle mie spalle.

«Ma dov’è tua madre?»

«La mamma è morta due giorni fa».

«Ma non può essere… ha scritto una lettera… ha scritto che eravate sopravvissute entrambe e che sareste tornate presto…».

E poi mi trascinò in casa, mi abbracciò e piangemmo insieme.

Per quanto possa suonare un po’ bizzarro, disse: «Sei stata fortunata a trovarmi a casa; stavo giusto per uscire». Come se fossi passata per una visita di cortesia.

D’un tratto si fermò e disse: «Non sei da sola; tua nonna è viva! Vi ho scritto a Bergen-Belsen, ma vedo che non avete ricevuto la lettera. È sopravvissuta a Terezín, tuo zio Leo è andato a prenderla. È da lui adesso, qui a Praga».

Ora sì che ero sbalordita. La nonna era viva! Io e mia madre l’avevamo pianta ad Auschwitz, quando una donna arrivata con il convoglio di maggio ci aveva raccontato di averla lasciata sul letto di morte. Dunque si era ripresa ed era viva! Era sopravvissuta per tre anni nel ghetto.

L’indomani andai a ritirare i due fagotti, il mio e quello di Mausi, perché Manya disse che sarei potuta restare con lei. Le sembrava la cosa più naturale e ovvia e io ero ancora troppo confusa per pensare al disturbo che le avrei potuto arrecare.

Di recente zia Manya era stata nominata preside di una scuola speciale per bambini con problemi di udito. Perciò quell’estate non era in ferie come gli altri insegnanti, ma doveva lavorare per tutto luglio e agosto. Viveva in un appartamento con



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