La tregua (Super ET Vol. 425) (Italian Edition) by Primo Levi

La tregua (Super ET Vol. 425) (Italian Edition) by Primo Levi

autore:Primo Levi [Levi, Primo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Einaudi
pubblicato: 2015-12-30T05:00:00+00:00


Una curizetta

Il campo di raccolta in cui avevo cosí fortunosamente ritrovato Mordo Nahum si chiamava Sluzk. Chi cercasse in una buona carta dell’Unione Sovietica il paesino che porta questo nome, con un poco di pazienza potrebbe anche trovarlo, in Russia Bianca, un centinaio di chilometri a sud di Minsk. Ma su nessuna carta geografica è segnato il villaggio che si chiama Staryje Doroghi, nostra ultima destinazione.

A Sluzk, nel luglio 1945, sostavano diecimila persone; dico persone, perché ogni termine piú restrittivo sarebbe improprio. C’erano uomini, ed anche un buon numero di donne e di bambini. C’erano cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani; c’erano bianchi e gialli e diversi negri in divisa americana; tedeschi, polacchi, francesi, greci, olandesi, italiani ed altri; ed inoltre, tedeschi che si pretendevano austriaci, austriaci che si dichiaravano svizzeri, russi che si dichiaravano italiani, una donna travestita da uomo, e perfino, cospicuo in mezzo alla folla cenciosa, un generale magiaro in alta uniforme, litigioso e variopinto e stupido come un gallo.

A Sluzk si stava bene. Faceva caldo, anche troppo; si dormiva per terra, ma non c’era da lavorare e c’era da mangiare per tutti. Anzi, il servizio mensa era meraviglioso: veniva affidato dai russi, a rotazione, per una settimana a ciascuna delle principali nazionalità rappresentate nel campo. Si mangiava in un vasto locale, luminoso e pulito; ogni tavolo aveva otto coperti, bastava arrivare all’ora giusta e sedersi, senza controlli né turni né code, e subito arrivava la processione dei cucinieri volontari, con vivande sorprendenti, pane e tè. Durante il nostro breve soggiorno erano al potere gli ungheresi: cucinavano degli spezzatini infuocati, e delle enormi razioni di spaghetti col prezzemolo, stracotti e pazzamente zuccherati. Inoltre, fedeli ai loro idoli nazionali, avevano istituito una orchestrina zigana: sei musicanti di paese, in brache di velluto e farsetti di cuoio ricamato, maestosi e sudati, che attaccavano con l’inno nazionale sovietico, quello ungherese e la Hatikvà (in onore del forte nucleo di ungheresi ebrei), e proseguivano poi con frivole csarde interminabili, finché l’ultimo commensale non aveva deposto le posate.

Il campo non era cintato. Era costituito da edifici cadenti, a uno o due piani, allineati ai quattro lati di un vasto spiazzo erboso, probabilmente l’antica piazza d’armi. Sotto il sole ardente della calda estate russa, questo appariva costellato di dormienti, di gente intenta a spidocchiarsi, a rammendarsi gli abiti, a cucinare su fuochi di fortuna; e animato da gruppi piú vitali, che giocavano al pallone o ai birilli. Al centro, dominava una enorme baracca di legno, bassa, quadrata, con tre ingressi tutti sullo stesso lato. Sui tre architravi, in grossi caratteri cirillici tracciati col minio da mano incerta, stavano scritte tre parole: «Mužskaja», «Ženskaja», «Ofitserskaja», vale a dire «Per uomini», «Per donne», «Per ufficiali». Era la latrina del campo, ed insieme la sua caratteristica piú saliente. All’interno, c’era solo un piancito di tavole sconnesse, e cento buchi quadrati, dieci per dieci, come una gigantesca e rabelaisiana tavola pitagorica. Non esistevano suddivisioni fra gli scompartimenti destinati ai tre sessi: o se ce n’erano state, erano scomparse.

L’amministrazione



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