Matrimonio in cinque atti by Leah Hager Cohen

Matrimonio in cinque atti by Leah Hager Cohen

autore:Leah Hager Cohen [Cohen, Leah Hager]
La lingua: ita
Format: epub
editore: SUR
pubblicato: 2022-06-08T22:00:00+00:00


Terzo notturno

LA LUNA

Viene svegliato dai singhiozzi, i suoi. Gli succedeva spesso di svegliarsi singhiozzando quando era piccolo, così piccolo che nemmeno se lo ricorda, o almeno non è un ricordo traducibile in parole, conservato nella gelatina del linguaggio, eppure è in agguato, dietro questo violento terrore liquido, il residuo di qualcosa che ha già provato. Ciò rende il terrore ancora più terribile? Sì. Il terrore percepisce la sua presenza, lo riconosce. Lui si ritrova sotto la lingua di un’onda enorme che si ripiega su sé stessa, lo sbatacchia di qua e di là, beffarda; la sabbia gli punge la pelle, il sale gli punge gli occhi e non ci vede, è tutto buio, non distingue più l’alto dal basso e poi qualcosa si allunga verso di lui, un grosso tentacolo con le ventose, e lui geme e cerca di allontanarsi, di svicolare, con un movimento che lo sconvolge. Nulla è stabile, nulla è come sembra, nemmeno – è la cosa più terrificante di tutte – nemmeno lui.

Poi lo afferrano e lo issano fuori dallo strano fruscio buio e asfissiante delle onde; rammollito dalla paura, soccombe; attraversa lo spavento e approda nel torpore. Resistere in un certo senso è più terrificante che cedere.

Desisti,

arrenditi,

svegliati, Pim!

«Svegliati. Pim. Stai sognando».

Walter si stringe al petto l’ammasso sudato di arti che è Pim. Dall’altra parte del letto, Bennie non si muove. Di solito ha il sonno leggero, ma da alcune settimane ha cominciato a soccombere appieno alle profondità del sonno del primo trimestre. La luna inargenta una ciocca umida sulla tempia di Pim e nei suoi occhi, sebbene aperti, c’è un’espressione selvaggia, remota: è ancora perso dentro il suo sogno. Non sogno, bensì incubo. Non incubo, bensì terrore notturno. Pavor nocturnus, l’aveva chiamato il dottore qualche anno prima, quando avevano cercato aiuto, quando capitava più volte alla settimana. La cosa peggiore che potessero fare, avevano imparato Walter e Bennie, era cercare di consolarlo in modo esplicito. Il contatto visivo intenzionale, una frase rivolta direttamente a lui, una carezza sfacciata: servivano solo ad accrescere il panico e la confusione di Pim, a farlo scivolare più a fondo nelle fessure della sua spaventosa irrealtà. Al contrario, avevano imparato a prestargli un’attenzione obliqua. C’erano delle tecniche. Prenderlo in braccio e dire, quasi si parlasse fra sé: Ho sete. Magari vado a prendermi un bicchier d’acqua, e poi dirigersi insieme a lui al lavandino. Se usavi un tono leggero e un atteggiamento disinvolto, a poco a poco il respiro gli tornava normale e beveva un sorso, perfino, dalla tazza che gli porgevi distrattamente, sbirciava con te attraverso le tende o ti appoggiava la testa sulla spalla e tornava a essere un normalissimo bambino stanco.

Walter, sbadigliando, solleva Pim e lo porta prima alla finestra (Ciao, luna, saluta la pastiglia bianca come un’aspirina lontanissima), poi in corridoio, fino al bagno, dove senza accendere la luce solleva la tavoletta e fa pipì. Pim, passato lo spavento, si districa dalle braccia di suo padre e, replicandone in miniatura la posizione esatta, aggiunge il proprio sgocciolio nella tazza.



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