Aglio, olio e assassino by Pino Imperatore

Aglio, olio e assassino by Pino Imperatore

autore:Pino Imperatore [Imperatore, Pino]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788851163327
editore: DeA Planeta
pubblicato: 2018-05-20T22:00:00+00:00


29

Il mostro di Posillipo

Via Marechiaro. Una lunga arteria che costeggia ville, parchi e palazzine panoramiche. Dalle pendici della collina di Posillipo arriva fino allo spettacolare tratto di costa dove ci sono i ruderi del Palazzo degli Spiriti, costruzione di epoca romana che secondo una leggenda fu sede della scuola di arti magiche di Publio Virgilio Marone, e ’a fenestella che ispirò a Salvatore Di Giacomo il testo di uno dei brani più noti della canzone classica napoletana: Marechiare. Due emblemi della città, due poeti divisi da venti secoli di storia.

Nel tratto inferiore della strada, in una curva, c’è la chiesa di Santa Maria del Faro, gioiello dell’architettura sacra partenopea, eretta sui resti di un tempio dedicato alla dea Iside e poi restaurata nel Settecento in stile barocco dal geniale architetto Ferdinando Sanfelice.

Il parroco don Giacinto la superò con la macchina, trovò uno spazio libero, parcheggiò e scese. Erano le otto e mezza del mattino; di lì a poco avrebbe dovuto celebrare la prima messa della domenica.

Fatti una ventina di passi, notò un voluminoso trolley accostato al cancello laterale della chiesa. Si avvicinò. Era rosso, di tessuto, dotato di quattro ruote piroettanti.

“Conterrà vestiti usati da donare ai poveri” pensò. “Me l’avrà lasciato qualche benefattore”.

Ne afferrò il manico per spostarlo e lo sentì pesante.

“Non sono vestiti”.

Con non poca fatica, lo portò all’interno del luogo di culto e lo appoggiò in orizzontale sul pavimento della navata, tra le ultime file dei banchi.

Ne fece scorrere il cursore della cerniera e lo spalancò.

«O Maria benedetta!» esclamò portandosi le mani davanti alla bocca.

«Un’altra domenica di merda!» sbottò Improta mentre era a bordo della volante diretta a sirene spiegate verso via Marechiaro.

L’agente alla guida e quello che gli era accanto non replicarono.

Scapece, seduto dietro con il commissario, guardava sfilare dal finestrino le case e le strade di Napoli. Dentro non sentiva emozioni. Il vuoto. Tabula rasa.

Davanti alla chiesa s’era formato un capannello di gente.

Don Giacinto, confortato da alcuni abitanti del posto, era appoggiato al cancello. Sotto shock.

Improta fece posizionare i due agenti davanti all’ingresso della chiesa ed entrò insieme a Scapece.

Il trolley era a terra, dove il parroco l’aveva lasciato. Aperto.

Il commissario e l’ispettore inorridirono: la valigia conteneva il cadavere di una ragazza completamente nuda, rannicchiata in posizione fetale. Aveva sulla gola dei graffi e una striscia bluastra. Il volto era cianotico, le labbra livide e gonfie. Fra le scapole un segno di riconoscimento: un tatuaggio con delle rondini in volo. La superficie corporea visibile era disseminata di puntini rossi.

Scapece tirò fuori la lente e si chinò per guardare. «Sembra peperoncino in polvere. L’assassino ha messo la sua firma».

«Maledetto!» ringhiò Improta battendo un pugno su un banco.

«Ha mantenuto la promessa, commissario. Ci ha beffati».

«Gliela faremo pagare cara».

«Non vedo sangue. Stavolta non ha usato zappette o coltelli. L’ha strangolata con una cinghia o una corda».

«Povera ragazza» fece Improta osservando il corpo. «Chi potrebbe essere?».

«Domandiamolo al prete; magari è in grado di identificarla».

Malfermo sulle gambe, spaventato, don Giacinto rientrò in chiesa. Aveva una sessantina d’anni; portava al collo un laccetto da cui pendeva una croce dehoniana in legno d’ulivo.



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