Desideriamo informarla by Gourevitch Philip
autore:Gourevitch Philip
La lingua: eng
Format: epub
Il campo di Kibeho era uno della dozzina di campi per rifugiati interni messi in piedi nella
Zone Turquoise. Alla fine di agosto del 1994, quando i francesi si ritirarono, i campi, che ospitavano almeno quattrocentomila persone, vennero affidati a una rispolverata MINUAR e
a un assortimento di agenzie umanitarie private e dell'ONU. Il nuovo governo pretendeva l'immediata chiusura dei campi. Il Ruanda, sosteneva, era abbastanza sicuro perché tutti tornassero a casa. Inoltre la grande presenza di miliziani e militari dell'hutu power tra i rifugiati faceva sì che i campi rappresentassero di per sé una grave minaccia per la sicurezza
nazionale. Le agenzie umanitarie, pur concordando in linea di principio, sostenevano però che
l'allontanamento dai campi doveva avvenire in modo esclusivamente volontario.
Ma i rifugiati non avevano alcuna intenzione di lasciare i campi, dov'erano ben nutriti e forniti di una buona assistenza medica, anche perché circolavano voci secondo cui l'RPF stava
sterminando gli hutu in massa; voci messe in giro dai génocidaires, che continuavano a esercitare una forte influenza sulla popolazione. Come nei campi sulle frontiere, anche a Kibeho gli interahamwe non esitavano a minacciare e aggredire coloro che esprimevano il desiderio di andarsene, nel timore che lo sfollamento della popolazione civile li isolasse esponendoli alla giustizia. I génocidaires facevano anche frequenti sortite fuori dai campi, seminando il terrore, depredando i villaggi circostanti e aggredendo i tutsi sopravvissuti al genocidio e gli hutu sospettati di testimoniare contro di loro; un'attività il cui epicentro era rappresentato proprio da Kibeho. Secondo Mark Frohardt, impiegato al Rwanda Emergency Office dell'ONU e in seguito vicecapo della missione dell'ONU per i diritti umani in Ruanda,
la MINUAR «calcolò che una percentuale sproporzionatamente alta degli omicidi commessi in Ruanda tra fine novembre e inizio dicembre del 1994 erano stati compiuti in un raggio di
venti chilometri da Kibeho».
Quel dicembre la MINUAR e l'RPA condussero la loro unica operazione congiunta,
un'ispezione di una giornata a Kibeho nel corso dalla quale vennero arrestati una cinquantina
di «elementi estremisti» - cioè génocidaires - e vennero confiscate alcune armi.
Poco tempo dopo l'RPA cominciò a chiudere i campi più piccoli. Per lo più venne usata una strategia di «coercizione non violenta»: la gente veniva fatta uscire dalle baracche e le baracche venivano incendiate.
I rifugiati afferrarono il messaggio, e le agenzie umanitarie garantirono la loro
collaborazione, aiutando a riportare a casa più di centomila persone. Successivi studi di cooperanti internazionali e di osservatori dell'ONU stabilirono che di questi rifugiati almeno
il novantacinque per cento si ristabilì pacificamente nelle proprie case. Quanto agli altri, molti génocidaires fuggirono in altri campi, soprattutto a Kibeho, alcuni rifugiati di ritorno ai loro villaggi furono arrestati con l'accusa di genocidio, e alcuni vennero uccisi per vendetta o per atti di banditismo.
All'inizio del 1995 circa duecentocinquantamila rifugiati si trovavano ancora nei campi, tra
i quali quello di Kibeho era il più esteso e ospitava la maggior quantità di génocidaires.
Temendo le conseguenze di una chiusura forzata, l'ONU e le agenzie umanitarie si offrirono
di concordare una soluzione alternativa. Il governo concesse una proroga. Passarono mesi, ma i cooperanti non riuscivano a mettersi d'accordo su un piano coerente. Alla fine di marzo
il governo annunciò che il tempo stava scadendo, e a metà aprile l'incarico di chiudere i campi venne affidato di nuovo all'RPA: campo per campo, l'esercito rimandò a casa senza incidenti
almeno duecentomila hutu.
Kibeho venne lasciato per ultimo. Il 18 aprile, prima dell'alba, l'RPA circondò il campo, che
ospitava ancora almeno ottantamila uomini, donne e bambini. Spaventati dai soldati, e aizzati
al panico dagli esponenti dell'hutu power, i rifugiati fuggirono precipitosamente su per la collina e si raggrupparono in una massa compatta intorno al quartier generale dello Zambatt -
il contingente zambiano della MINUAR -, un edificio circondato di sacchi di sabbia e filo spinato. Nella calca almeno undici bambini morirono schiacciati, e centinaia di persone vennero gravemente ustionate dal rovesciarsi delle pentole o si ferirono contro il filo spinato dell'ONU.
L'RPA serrò il suo cordone intorno alla folla, e nel corso dei due giorni seguenti aprì alcuni
check point. Le agenzie umanitarie organizzarono la registrazione dei rifugiati e circa cinquemila persone vennero esaminate e accompagnate alle loro case. Ma i check point erano
troppo pochi, la registrazione procedeva a rilento e non c'erano abbastanza camion per permettere di velocizzarla. Inoltre i génocidaires spingevano i rifugiati a non collaborare, e anche alcuni cooperanti stranieri consigliavano di resistere all'evacuazione. Nel campo l'acqua e il cibo scarseggiavano, e la maggior parte delle persone era talmente pressata che riusciva a stento a muoversi, ed era costretta a restare in mezzo alla propria urina e alle proprie feci. Il 19 aprile alcuni rifugiati lanciarono delle pietre contro i soldati, e a quanto pare qualcuno tentò di impadronirsi di armi dell'RPA. I soldati reagirono aprendo il fuoco e uccidendo alcune dozzine di persone. Nel seguito della giornata, giunse al campo in appoggio
agli zambiani il battaglione medico australiano della MINUAR, l'Ausmed.
Il 20 aprile verso sera cominciò a piovere a dirotto. Quella notte nel campo gremito alcuni
aggredirono a colpi di machete i propri vicini. Ci furono anche sporadiche sparatorie tra RPA
ed elementi armati tra i rifugiati. La mattina erano già state uccise almeno ventun persone, soprattutto per i colpi di arma da fuoco, e molti di più erano i feriti, soprattutto per i colpi di machete. E continuavano ad esserci bambini che morivano calpestati, mentre l'RPA stringeva
sempre di più il suo cordone. Per tutto il corso della giornata seguente la gente sfilò di fronte ai banchi per la registrazione e continuò ad allontanarsi dal campo, per lo più a piedi, perché la pioggia aveva reso quasi del tutto impraticabili le strade. L'RPA limitava l'accesso dei rifugiati ai rifornimenti di medicinali e di acqua, e a intervalli regolari sparava in aria per spingere la folla verso i banchi per la registrazione.
Intanto all'interno del campo proseguivano gli atti di violenza. «Al quartier generale zambiano, - ricordò in seguito un ufficiale dell'Ausmed, -
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