Gli amori degli altri by Eva Cantarella

Gli amori degli altri by Eva Cantarella

autore:Eva Cantarella [Cantarella, Eva]
La lingua: ita
Format: epub
editore: La nave di Teseo
pubblicato: 2018-10-29T16:00:00+00:00


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La seconda grande alterità:

funzione e regole dell’omoerotismo maschile

Eccoci, al termine delle nostre storie, al problema di partenza: la profonda diversità tra il modo dei greci e il nostro modo di concepire e vivere l’amore. Per capire davvero la quale è necessario (ed è quello che faremo) approfondire il discorso su come veniva vissuto il rapporto amoroso tra due uomini e sul suo ruolo sociale. E il miglior modo di farlo è leggere cosa ne dice Platone nel Simposio, il celeberrimo dialogo scritto nel 416 a.C., quando il poeta tragico Agatone, per festeggiare la sua vittoria nelle gare delle Grandi Dionisie di quell’anno, invitò alcuni amici a un simposio, uno di quegli incontri serali, ai quali abbiamo già avuto modo di accennare, che nel mondo greco svolgevano un ruolo sociale di fondamentale importanza.

Il simposio, per cominciare, era una riunione rigorosamente riservata agli uomini, eccezion fatta per alcune donne incaricate di intrattenerli, appartenenti alla categoria di quelle considerate “non oneste” (come le etere e le danzatrici). Il suo nome (simposio, da syn pinein, “bere insieme”) veniva dal momento in cui, dopo la cena (deipnon) consumata insieme, i commensali iniziavano a bere vino e intrecciavano una conversazione su un argomento stabilito in precedenza, a volte al momento dell’invito, a volte la sera stessa del simposio.

Ma la conversazione che in quel momento aveva inizio non era una normale chiacchierata, un intrecciarsi di discorsi, commenti, domande che i partecipanti potevano fare liberamente. Essa si svolgeva secondo un ordine ben preciso, deciso all’inizio della serata da uno dei commensali, il simposiarca (“capo del simposio”), cui spettava il compito di stabilire, oltre ai divertimenti e ai giochi, anche il numero delle coppe da bere e le proporzioni della mescolanza di vino e acqua.

I greci, infatti, non bevevano mai vino puro, perché il loro era molto alcolico, a causa della vendemmia tardiva – dopo la caduta delle foglie, quando, come dice Catone nel De agricoltura, il vino era percoctus. Bere vino puro, dunque, portava molto facilmente all’ubriachezza, che i greci ritenevano indegna di un uomo civilizzato. Solo i barbari (che secondo i greci erano incivili per definizione) bevevano fino a ubriacarsi, da cui l’espressione popolare “bere alla scita” – come gli sciti, vale a dire appunto come barbari. Il vino veniva dunque diluito con l’acqua in proporzioni diverse a seconda del grado di ebbrezza che si intendeva raggiungere, e le proporzioni variavano in base al rapporto tra una saggia lucidità (e dunque saggezza) e la dolce follia di un inebriamento controllabile che si intendeva raggiungere, in quella determinata occasione, secondo le indicazioni e il controllo del simposiarca.

Il consumo del vino era legato anche all’aspetto erotico del simposio, e ai giochi che vi si praticavano, come ad esempio il cottabo, un gioco siciliano che consisteva non nel bere, ma nel lanciare il vino dalla coppa, tenuta abilmente con le dita, verso un bersaglio – in genere un oggetto in bilico, che se colpito cadeva, o anche delle barchette che galleggiavano su un piccolo specchio d’acqua, che il lancio doveva affondare.



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