La casa in collina by Cesare Pavese

La casa in collina by Cesare Pavese

autore:Cesare Pavese
La lingua: ita
Format: mobi, epub
pubblicato: 2012-10-01T22:00:00+00:00


XIII.

Ormai non c’era più dubbio. Accadeva da noi quel che da anni accadeva in tutta Europa - città e campagne allibite sotto il cielo, percorse da eserciti e da voci paurose. In quei giorni non moriva soltanto l’autunno. A Torino, sopra un mucchio di macerie, avevo visto un grosso topo, tranquillo nel sole. Tanto tranquillo che al mio avvicinarsi non aveva mosso il capo né trasalito. Era ritto sulle zampe e mi guardava. Degli uomini non aveva più paura.

Veniva l’inverno e io avevo paura. Al freddo ero avvezzo - come i topi, come tutti - avvezzo a scendere in cantina, a soffiarmi sulle mani. Non erano i disagi, non le rovine, forse nemmeno la minaccia della morte dal cielo; bensì il segreto finalmente afferrato che potevano esistere dolci colline, una città sfumata di nebbie, un indomani compiaciuto, e in tutti gli istanti accadere a due passi le ose bestiali di cui si bisbigliava. La città si era fatta più selvaggia dei miei boschi. Quella guerra in cui vivevo rifugiato, convinto di a verla accettata, di essermene fatta una pace scontrosa, inferociva, mordeva più a fondo, giungeva ai nervi e nel cervello, Cominciavo a guardarmi d’attorno, palpitando, come una lepre agli estremi. Mi svegliavo di notte, in sussulti.

Pensavo a Tono, ai sogghigni di Fonso, alle congiure, alle torture, ai morti freschi. Pensavo ai paesi dove da più di cinque anni si viveva in questo modo.

Anche i giornali - c’erano ancora dei giornali - ammettevano che sulle montagne qua e là c’era stata resistenza, e continuava. Promettevano pene, perdoni, supplizi. Soldati sbandati, dicevano, la patria vi comprende e vi chiama. Finora ci siamo sbagliati, dicevano, vi promettiamo di far meglio. Venite a salvarvi, venite a salvarci, perdio. Voi siete il popolo, voi siete i nostri figli, siete carogne, traditori, vigliacchi. M’accorsi che le vuote frasi di un tempo non facevano più ridere.

Le catene, la morte, la comune speranza, acquistavano un senso terribile e quotidiano. Ciò che prima era stato nell’aria, era stato parole, adesso afferrava alle viscere. Nelle parole c’è qualcosa d’impudico. In certi istanti avrei voluto vergognarmi.

Invece tacevo. Avrei voluto scomparire come un topo. Le bestie, pensavo, non sanno quel che avviene. Invidiavo le bestie. Le mie donne di casa avevano di buono che ignoravano ogni cosa della guerra. L’Elvira capì subito questa sua forza. Adesso anche il freddo mi ricacciava in casa; e rientrarci da Torino, dal frutteto, dalle vuote camminate per la collina gialla e spoglia scordando un momento nel suo tepore di tana la eterna monotona angoscia e paura, mi riusciva quasi dolce.

Anche di questo avrei voluto vergognarmi.

Veniva Dino, in quei mattini di novembre, e studiavamo sui suoi libri, lo facevo parlare di quel che sapeva. Di punto in bianco lui smetteva la lezione e usciva a raccontare delle ultime voci, di quel che aveva detto un viandante, dei tedeschi, dei patrioti alla macchia. Sapeva già le prime storie di colpi inverosimili, di beffe, di spie giustiziate; se entrava l’Elvira, smetteva. A ogni nuova notizia pensavo quale enorme



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