Quando tutto questo sarà finito by Gioele Dix

Quando tutto questo sarà finito by Gioele Dix

autore:Gioele Dix [Dix, Gioele]
La lingua: ita
Format: epub, azw3
Tags: Biography & Autobiography, General
ISBN: 9788852048050
Google: RqXiAgAAQBAJ
editore: Edizioni Mondadori
pubblicato: 2014-03-03T23:00:00+00:00


8

La promessa della cartolaia

Il doganiere sorrideva quando ci disse che la telefonata a Berna aveva avuto esito positivo per noi. A quell’ora nessuno aveva ancora cercato di varcare il confine ed eravamo stati accettati tutti e quattro. Esattamente come previsto dal tenente Emilio, angelo travestito da finanziere che non dimenticherò mai.

Ci trasportarono con un camion fino alla stazione ferroviaria di Chiasso e ci sistemarono in una sala d’attesa in mezzo a viaggiatori comuni. Un solo soldato di guardia ci controllava dall’esterno, con discrezione. Dopo un’ora ci raggiunse un gruppo consistente di profughi passati il giorno prima e fra loro c’erano anche i nostri cugini.

«Voi avete dormito qui?»

Di nuovo il cuginetto Raimondo con le sue strampalate domande, ma senza attendere la mia risposta disse: «Noi invece abbiamo dormito in un albergo, però era una sistemazione provvisoria, solo per una notte».

«E tu come lo sai?»

«Ho sentito mio padre che lo diceva ieri sera a mia madre quando eravamo a letto, le ha detto proprio: questa è una sistemazione provvisoria.»

«E hai sentito anche dove ci manderanno?»

«No, perché ero molto stanco e mi sono addormentato.»

Venimmo caricati sulla carrozza passeggeri di un treno e portati a Bellinzona. Usciti dalla stazione, formammo un corteo che percorse la città occupando il centro della strada. Durante il tragitto la popolazione, facendo ala al nostro passaggio, si mostrò espansiva in maniera del tutto imprevista. C’era chi salutava, chi batteva le mani, chi ci rivolgeva parole d’incoraggiamento. Fu commovente essere al centro della loro attenzione dopo l’invisibilità cui eravamo stati costretti da tempo nel nostro paese. Io camminavo tenendo per mano Stefano che si guardava intorno frastornato, incapace di cogliere il senso di ciò che stava accadendo, ma a differenza del cugino Raimondo era un bambino che non faceva troppe domande. Quando però una signora si avvicinò e gli porse sorridente una banana, ebbe un moto di diffidenza, quasi di paura e poi mi chiese: «Che cos’è?».

In effetti, banane in Italia non ne giravano più da un pezzo e dunque lui non ne aveva mai viste. Io ringraziai di cuore per il regalo e gli proposi di assaggiarla, ma Stefano non ne volle sapere e la conservò intatta fino a sera, impugnandola come un prezioso giocattolo esotico.

Passammo la notte accampati nella palestra di una scuola e all’indomani ci trasferirono in un altro cantone.

Ci dissero che saremmo rimasti lì per un periodo di quarantena di almeno sei settimane. Sulla destinazione successiva non c’erano informazioni, ma in molti dicevano che uomini e donne sarebbero stati separati e la cosa non mise nessuno di buonumore.

Il passaggio alla nuova condizione di profughi fu anche lessicale e tutti aggiungemmo al nostro vocabolario la parola “campo”, ma in un’accezione non strettamente agricola. Non si intendeva campo di lavoro e neanche campo di prigionia e men che meno campo di concentramento, ma pure campo di internamento o campo profughi suonavano male. Meglio non essere troppo dettagliati, si diceva campo e tutti capivano. Con quel tanto di bucolico che serviva a cacciare la malinconia di molti.

A Lostorf per



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