Servabo by Luigi Pintor

Servabo by Luigi Pintor

autore:Luigi Pintor [Pintor, Luigi]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri
pubblicato: 2011-03-02T23:00:00+00:00


La pace

VII

Era esplosa l’ultima bomba, mirabile invenzione del secolo, e in quel rogo infernale la guerra era finita. Era tempo di far festa, di risarcirsi delle privazioni, di riprendere le proprie occupazioni, di tornare alla normalità. E tutti lo facevano con la frenesia che accompagna le novità della pace, quando la guerra è solo una parentesi da chiudere precipitosamente, scacciandone gli ultimi fantasmi. Ma io non avevo più abitudini e non sapevo a quali occupazioni tornare.

Normalità voleva dire per me dare esami di storia e filosofia, fare esercizi meccanici sul pianoforte, partecipare a comizi con inni e bandiere, amoreggiare nei giardini rinverditi e ritrovare il buon umore. Voleva dire riconoscere che il mondo girava come prima, che non era successo nulla di irreparabile, che la vita riaffermava i suoi diritti.

Ma l’aria del dopoguerra non aveva per me questa leggerezza, non la respiravo con questa disinvoltura e neanche desideravo farlo. Provavo un senso di estraneità, di isolamento e di sospetto, la quotidianità non aveva il sapore di prima. Quegli esami, quegli esercizi, quei comizi somigliavano troppo a un comodo diversivo. C’era troppa sproporzione, era morta troppa gente, quella normalità somigliava a una diserzione.

Non ero neanche sicuro che la guerra fosse finita. Sembrava piuttosto una tregua carica di minacce, come se gli uomini non avessero imparato nulla e quel lascito di cadaveri e di macerie non li avesse convertiti alla saggezza ma addestrati a una futura ecatombe. I vincitori somigliavano stranamente ai vinti, si scambiavano le parti, erano di nuovo nemici gli uni agli altri, come se la guerra fosse stata svuotata delle promesse che l’avevano nobilitata e confessasse ora la sua vera natura, fredda regola di una storia sempre uguale.

Ero stupito che la normalità riproducesse così velocemente, con le stesse abitudini, anche gli stessi vizi. Ora non c’erano tante divise, tutti indossavano abiti indistinti ma la diversità dei destini, quella divisione in due tra superiori e inferiori che si vede così bene nella guerra, riappariva identica sotto le forme della civile convivenza. Chi tornava a comandare nelle nuove istituzioni aveva gli stessi connotati dei predecessori, chi tornava a ubbidire nella vita quotidiana conosceva le stesse umiliazioni, i più forti e i più deboli tornavano a recitare la stessa parte senza varianti.

Strana e subitanea metamorfosi, la gente non aveva più nello sguardo quella domanda e quell’offerta di solidarietà che trasmetteva tacitamente nei giorni della sofferenza. Ora un desiderio di rivalsa animava ciascuno contro l’altro, ciascuno alla ricerca della sua parte di bottino, nella grande fiera che imparerò a chiamare capitalistica, dove miseria e abbondanza e ogni genere di mercanzia sono in perenne compravendita. E anche le nuove passioni della politica, i discorsi accalorati, la suggestione dei capi e dei simboli avevano un debole suono a paragone dei fragori di guerra ch’erano ancora nell’aria.

Su questo sfondo anche le cose più semplici, quelle più private e intime, mi apparivano sbiadite e gracili, disperse e inafferrabili. La casa, i libri, gli oggetti, le conversazioni domestiche, le storie e i ricordi facevano parte di un ordine



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