Brizzi Giovanni - 2016 - Canne: La sconfitta che fece vincere Roma by Brizzi Giovanni

Brizzi Giovanni - 2016 - Canne: La sconfitta che fece vincere Roma by Brizzi Giovanni

autore:Brizzi Giovanni [Brizzi Giovanni]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Intersezioni, Storia
ISBN: 9788815328915
editore: Società editrice il Mulino, Spa
pubblicato: 2016-06-08T22:00:00+00:00


Accusa ingiustificata, evidentemente. Ove i due consoli si fossero attestati insieme lungo uno dei due versanti della penisola e il Barcide avesse poi scelto l’altro per calare verso sud, avrebbero potuto perderlo: ed era un rischio che non potevano correre. Al contrario, le due importanti piazze di Rimini e di Arezzo erano collegate tra loro da un’arteria stradale con evidenti funzioni militari, costruita lungo la valle del Marecchia probabilmente per opporsi al pericolo celtico. Purché tra loro regnasse l’accordo, Flaminio e Servilio potevano dunque disporsi a sorvegliare gli opposti versanti della penisola sicuri di riuscire a congiungere agevolmente le loro forze non appena Annibale avesse manifestato chiaramente le sue scelte. L’aver saputo mettere fuori gioco l’armata di Flaminio è merito dell’abilità di Annibale (e semmai, come vedremo, conseguenza della particolare mentalità romana), non frutto di una scelta strategica sbagliata.

A primavera inoltrata, finito il disgelo, quando erano meglio guadabili i fiumi e si avvicinava l’epoca dei raccolti, Annibale abbandonò il suo campo. Rinunciando alla via a oriente, verso Rimini – che lo avrebbe spinto verso un ager Gallicus denso di coloni e, di qui, verso la strettoia sotto il Conero – traversò l’Appennino. Sul passo prescelto ancora si discute: all’ipotesi forse ancor oggi prevalente, che pensa al valico di Collina, altri preferiscono l’idea di un transito nel Modenese. Annibale sbucò, pare, sul medio corso dell’Arno, nel tratto acquitrinoso tra Pistoia e Fiesole; la traversata di quelle vaste paludi, durata quattro giorni e tre notti, fu attuata dall’armata punica in condizioni estremamente disagevoli, con l’acqua alla vita e in quasi totale assenza di sonno.

La marcia costò perdite minime in vite umane, alquanto maggiori in animali e in salmerie. Fu in questa circostanza che Annibale, colpito forse da oftalmia purulenta, perdette del tutto la vista a un occhio, probabilmente il destro, e fu costretto a compiere la parte finale del tragitto sul dorso dell’ultimo pachiderma rimasto, quel Surus il cui nome ci è stato restituito da Plinio e che era probabilmente un elefante indiano. Nasce ora una delle immagini più potenti e suggestive dell’epopea barcide: era l’epoca – dirà Giovenale in una delle sue satire – «quando la belva getulica portava il generale con un occhio solo»[16]. Più che alla realtà, la monoftalmia àncora Annibale al mito: lungo e suggestivo, il pantheon dei grandi monoftalmi accosta figure divine o semidivine, come Polifemo o Wotan/Odino, a leggendari comandanti guerci, come Filippo II e Antigono, Nelson, Kutuzov o Dayan. Nel caso del Barcide questo connotato costituisce il nuovo elemento di una «leggenda nera» che andrà arricchendosi sempre più.

Lo attendeva, ad Arezzo, il console Flaminio. Nei confronti del leader riformatore una tradizione concordemente ostile ha esercitato la più distruttiva delle critiche, attribuendogli ogni sorta di errori: empietà – trascurò i gravissimi prodigi che prefiguravano la disfatta – e leggerezza, temerità e incompetenza, e persino, in Polibio, una grave mancanza di sangue freddo di fronte al nemico. Soprattutto, fatale a lui e al suo esercito si sarebbe rivelata – secondo alcune fonti – la smania di giungere a ogni costo allo scontro con Annibale.



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