Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva by Jenny Blackhurst

Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva by Jenny Blackhurst

autore:Jenny Blackhurst [Blackhurst, Jenny]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Newton Compton editori
pubblicato: 2021-02-14T23:00:00+00:00


39

Karen

Quando arrivò, il bar era praticamente deserto. Si stupì di essere la prima ad arrivare: di solito quando entrava in un locale le altre erano già lì, intente a confabulare vicine vicine. Ordinò tè e torta al cioccolato per tutte, poi tirò fuori l’iPad per controllare se fossero arrivate e-mail nel quarto d’ora in cui aveva lasciato l’ufficio. Per quanto assurdo potesse sembrare, voleva tenersi occupata: nei momenti morti si pensa, e lei non ce la faceva proprio. Non avendo trovato nuovi messaggi nella posta in arrivo, provò un enorme sollievo quando vide entrare Bea con in spalla una borsa grande quanto la sua auto. Indossava un paio di scarpe da ginnastica, una longuette attillata e una camicetta con volant sulla scollatura. Sembrava che non si reggesse in piedi. Era pallidissima e aveva gli occhi cerchiati.

«Cavolo, Bea, sembri uno straccio», le fece notare, mentre l’amica buttava la borsa sulla sedia accanto e si sedeva di fronte a lei.

«Grazie», rispose l’altra con un’occhiataccia. «Mi serviva proprio un promemoria. Prima quattro persone mi hanno chiesto se mi serviva un’ambulanza. Ho proprio la faccia di una che sta per stramazzare al suolo?»

«In realtà sembri una che hanno già aiutato a rialzarsi dopo che è stramazzata a terra. Soffri ancora d’insonnia?».

Bea ignorò la domanda. «Nessuno te l’ha detto che la sincerità non è sempre la strategia migliore?».

Quando la cameriera arrivò con le fette di torta, Karen ne porse una all’amica, che alla vista sembrò sul punto di vomitare.

«Starai scherzando. Potrei avere un litro di sangue e una flebo?».

Apparentemente, la povera cameriera non colse l’ironia o non trovò una risposta pronta. Con l’espressione di un cerbiatto abbagliato dai fari di una macchina, fissò prima Karen, poi Bea, e poi bofonchiò: «Vi porto il tè». Dopodiché scappò in cucina.

«Sul serio, oggi non è giornata per una predica», biascicò Bea, tirando fuori il cellulare dalla borsa per appoggiarlo sul tavolo. «E piantala con quei commenti sui morti viventi. Neanche tu mi pari in forma smagliante. Cos’è successo? Tu e Michael avete passato la notte a fare tango orizzontale?».

Neanche lontanamente. Però Bea aveva ragione: Karen sembrava fuori di sé. Non se n’era neanche accorta. Dall’ultima seduta aveva passato ogni secondo libero a pensare a Jessica Hamilton, a quello che le aveva detto, all’astio che provava per la donna che Karen sperava non fosse Eleanor: le aveva riempito la testa come miele appiccicoso che satura il vasetto.

«Magari», rispose Karen sottovoce. Non voleva accennare alla paziente. Bea non aveva il dono della discrezione come Michael: avrebbe voluto essere messa al corrente dei dettagli, e Karen non sapeva nemmeno da dove incominciare.

«Dov’è finita Eleanor?», cambiò discorso Bea, levandola d’impaccio. «L’hai sentita ultimamente? Non sapevo se tenermi a distanza o altro, non vorrei che pensasse che ci stiamo intromettendo…».

Proprio una bella scusa per non pensare a Eleanor e ai suoi problemi non appena spariva dalla circolazione. Non che Bea fosse egoista di proposito; era una brava persona – meravigliosa – e quando entrava in modalità premurosa non aveva eguali. Solo che in quel periodo gli altri non erano in cima ai suoi pensieri.



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