Giorni selvagg by William Finnegan

Giorni selvagg by William Finnegan

autore:William Finnegan
La lingua: ita
Format: epub
Tags: surf, viaggio, New Yorker, Tavarua, Hawaii, Vite inattese, California
pubblicato: 2016-06-23T16:00:00+00:00


William Finnegan e Bryan Di Salvatore, Kirra, Australia, 1979

Da sinistra: Bryan, William e l’ecuadoregno José, Grajagan, Giava, 1979

7. Scegliere l’Etiopia Asia, Africa, 1979-81

A Bryan faceva schifo Bali. Scrisse un articolo per «Tracks» – lo firmammo tutti e due come sempre, anche se io avevo fatto solo un po’ di editing – in cui derideva l’idea, all’epoca molto in voga tra i surfisti australiani, che Bali fosse ancora un paradiso incontaminato di onde deserte e pacifici induisti locali. In realtà, scriveva Bryan, era infestata di surfisti e di altri turisti. Era un posto dove in spiaggia potevi «vedere europei di entrambi i sessi senza il pezzo di sopra né quello di sotto», «sentire le balle dei surfisti di tutto il mondo», «pagare un tizio per portarti la tavola e provare così la vertiginosa ebbrezza del colonialismo» e «far credere che sei di Cronulla mentre in effetti sei di Parramatta», un sobborgo di Sydney meno fico dell’altro.

Da parte mia non potevo negare che Bali fosse piena di gente, e che nel contrasto tra il turismo di massa e la miseria indonesiana ci fosse qualcosa di grottesco, ma mi piaceva lo stesso. Abitavamo in un losmen, una pensione pulita e molto economica a Kuta Beach, dove mangiavamo bene non spendendo praticamente niente e ogni giorno facevamo surf. Nella biblioteca di un college a Denpasar, il capoluogo della provincia di Bali, avevo trovato anche un bel posto per scrivere e ci andavo con l’autobus tutte le mattine. Era un luogo fresco e silenzioso in un’isola bollente e rumorosa. Il mio romanzo andava avanti come un treno. A mezzogiorno, fuori della biblioteca, arrivava un venditore ambulante con un carrettino turchese e quello era il segno che era ora di staccare. Serviva piatti di riso, minestra, dolci e satay facendoli passare dalle finestre aperte degli uffici del campus. Mi piaceva molto il suo riso fritto, il nasi goreng, come si chiama in indonesiano. Di pomeriggio, se c’erano onde, Bryan e io ci spingevamo sulla penisola di Bukit, dove un paio di grandiose sinistre rompevano su roccia calcarea. Le onde erano belle anche a Kuta, perfino in giornate in cui lo swell era debole, e in una zona turistica sulla costa orientale che si chiamava Sanur quando il vento soffiava da sud-ovest.

L’onda che mi aveva rubato il cuore però era una travolgente e già celebre sinistra che si chiamava Uluwatu. Si trovava sull’estrema punta sud-occidentale di Bukit. Proprio sul lato est della baia c’era un tempio induista dell’Undicesimo secolo, costruito con un corallo grigio e duro, appollaiato sul ciglio di un’alta scogliera. Si entrava in acqua con l’alta marea attraverso una grotta marina dalle acque sciabordanti. Uluwatu regalava onde giganti e nei giorni migliori, con una lieve brezza di terra, le loro lunghe pareti azzurre facevano una cosa che non avevo mai visto da nessun’altra parte. In punti distinti, e nettamente separati l’uno dall’altro lungo la linea dell’onda, si impennavano e spumeggiavano dolcemente in lontananza, più avanti rispetto a dove stavi surfando – centinaia di metri più in là, e a centinaia di metri dalla costa.



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