I dimenticati by Ettore Mo

autore:Ettore Mo [Mo, Ettore]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RIZZOLI LIBRI
pubblicato: 2013-01-30T23:00:00+00:00

THAILANDIA

NEL MONASTERO DEI DANNATI DELL’AIDS

SE PROPRIO DEVE MORIRE (E NON C’È SCAMPO, se ne andrà tra qualche ora), è meglio prepararlo bene per l’ultimo viaggio, soprattutto ripulirlo da capo a piedi perché il suo corpo non lasci tracce immonde sul fondo rovente del forno crematorio. Così le due infermiere di turno, mascherina bianca sulla bocca, lo spingono appena fuori dal padiglione della morte su una sedia a rotelle e cominciano a lavarlo con spruzzi d’acqua e sapone come si farebbe con una vecchia utilitaria.

La vecchia utilitaria ha trentun anni, si chiama Niwan, è completamente nudo, se si esclude il vestimento dei tatuaggi che gli hanno stampato addosso ovunque, sul volto, sul petto, sul ventre, sulle gambe e sulle braccia che hanno ormai la consistenza di stecche da biliardo. Le infermiere hanno in mano una canna e una spugna e fanno scorrere su di lui l’acqua che, mista al sapone, gli ha scavato una pozzanghera sotto i piedi.

La testa continua a ciondolargli sul collo e sul petto scarnito e le due donne fanno fatica a tenerla per un attimo ferma mentre con un rasoio a mano lo rapano pazientemente a zero, lasciando cadere a terra ciuffi di capelli neri, cioè l’ultima cosa che avesse ancora in lui una parvenza di vita terrena. Gli occhi già non ci sono più, sono spalancati ma ruotano in orbite lontane, irraggiungibili.

Compiuta la liturgia del lavacro, Niwan viene risospinto nel padiglione dei morituri e adagiato con delicatezza nel suo letto d’agonia, il numero 29, su un materassino verde. Pesa come una piuma e le ossa stanno per bucare da ogni parte la velina arabescata della pelle. Dietro gli hanno piazzato un ventilatore perché nello stanzone fa molto caldo: un alito di frescura, l’ultimo, prima di entrare nella bocca ardente del forno.

Sulla federa del cuscino è disegnata una mappa del Sud-est asiatico e così ho potuto notare che la sua testa, rasata di fresco, poggia sulle spiagge solari del Vietnam, ma continua a spostarsi, per l’agitazione, da nord a sud e da sud a nord, riservando la stessa razione di rantoli ora ad Hanoi ora a Saigon. Come la maggior parte dei malati terminali di Aids, che da nove anni trovano rifugio nel monastero buddista di Wat Pharabat Nampu, in Thailandia, Niwan non ha nessuno al mondo: orfano prima ancora di essere nato, come dicono da queste parti. Nelle sue carte non sembra esserci traccia di nulla: luogo di nascita, residenza, parenti, amici.

Buio assoluto.

Ma non morirà solo, Niwan. Sul suo capezzale è planato d’improvviso uno di quegli angeli vaganti del volontariato internazionale che frequentano i luoghi di pena: in questo caso l’angelo ha gli occhi a mandorla e viene dal Giappone, dopo aver fatto sosta nei lebbrosari di Madre Teresa di Calcutta. Non vuol dire il suo nome, però mi viene facile chiamarla Cio Cio san, per reminiscenze liriche. Sta per ore con quella larva d’uomo di cui non sa nulla: gli stringe la mano, l’accarezza, gli inumidisce le labbra, caccia via le mosche dal cranio tatuato. Fa tutto questo e piange, Cio Cio san.

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