icerbox Pinol pelle by Unknown

autore:Unknown
Format: epub

9

Secondo le nostre congetture, doveva essere la mattina presto che i mostri erano più che mai inattivi. Arrivammo a questa conclusione utilizzando i nostri orari come immagine riflessa dei loro. A pensarci bene, noi ci eravamo adattati al ritmo che loro ci avevano imposto e non il contrario: dunque ci attendevamo qualche simmetria.

Ci incamminammo verso la scialuppa dopo una notte agitata come le precedenti. Per l’ennesima volta, la nostra sopravvivenza era stata appesa a un filo. Come misura difensiva, a metà pomeriggio avevamo perforato il granito come un colabrodo e steso un tappeto di spuntoni, giusto davanti all’ingresso. Non potevamo fare molto di più. A dire il vero, non sapevamo se quel presidio agisse da dissuasore o da richiamo. La sera, si intensificarono gli spintoni alla porta a onta delle loro stesse perdite, quasi fossero guidati da un’intuizione di offensiva finale, demolendo il campo di pioli acuminati con la forza del numero: un ammasso viscoso che muggiva e percuoteva la porta con teste, zampe e pugni. Non ci restava altro che sacrificare le poche bottiglie che avevamo ancora da parte. Le avevamo riempite con una miscela di rum, bitume, petrolio e quanto d’infiammabile rimaneva di scorta. Avevamo avvolto il collo delle bottiglie nell’ovatta irrorata di alcol. Batís le accendeva passandomele e io le lanciavo contro i mostri. Dopo essere andate in frantumi, s’incendiavano. I loro corpi umidi non bruciavano bene, ma almeno quella notte si spaventarono abbastanza da sparire.

Dunque non avevamo dormito, ma la nostra testa era quanto mai fresca. Furono necessari due viaggi fino alla scialuppa per caricare tutta l’attrezzatura che comprendeva la pompa per l’aria, la tenuta in caucciù da palombaro, lo scafandro di bronzo, scarponi speciali con suola di piombo, corde, una puleggia portatile, armamento e munizioni. Remavamo dando la schiena allo scoglio a forma di torta dove si trovava il naviglio. A volte giravo la testa, in questi casi si ha la sensazione che l’obiettivo, anziché avvicinarsi, si allontani. Erano soltanto cento metri, soltanto un’eternità. Ogni rilievo formato dalla marea era un nascondiglio, ogni monticello di onde una trappola. Mi sembrava di vedere continuamente crani sferici che spuntavano qui e là nell’acqua. I tronchi galleggianti alla deriva cullati sulla cresta delle onde mi ricordavano le membra di una bestia. Va bene, va bene, va benea cantavo senza convinzione in un italiano estemporaneo, solo per farmi tranquillizzare dalla musicalità della lingua. «Chiuda quella maledetta bocca» diceva Batís, remando accanto a me come un galeotto. Un grigio da pietra tombale opprimeva la superficie dell’oceano. Fummo innaffiati da uno spruzzo d’acqua proveniente da un lato. Le labbra mi si impregnarono di sale. La paura e l’urgenza ci inducevano a non risparmiare le forze: abbordammo lo scoglio con tanto impeto che evitammo la catastrofe solo grazie al fatto che c’era una piattaforma inclinata dove planò la scialuppa. Sbarcammo su una pietra aspra ed erosa. Una superficie ridicolmente minuscola ma labirintica, zeppa d’imbuti dove s’accumulava acqua mezza gelata. Spesso scivolavamo e ci dovevamo aiutare con le braccia e con le mani.

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