Il saldatore del Vajont by Antonio G. Bortoluzzi

Il saldatore del Vajont by Antonio G. Bortoluzzi

autore:Antonio G. Bortoluzzi [Bortoluzzi, Antonio G.]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Marsilio
pubblicato: 2023-08-08T16:00:31+00:00


***

Dopo il Car, il Centro addestramento reclute, sono stato assegnato al gruppo Lanzo, artiglieria da montagna, con l’incarico di conducente. All’inizio ero contento, perché pensavo si intendesse conducente di jeep o camion – e quindi in quell’anno assurdo avrei almeno portato a casa la patente C, necessaria per guidare i camion –, e invece significava conducente di muli, perché chi guidava mezzi di trasporto aveva l’incarico di conduttore. Quando abbiamo oltrepassato la porta carraia della nuova caserma sembrava tutto normale: il piazzale, due enormi edifici uno a destra e uno a sinistra, il pennone con il tricolore e in fondo delle costruzioni più basse, con degli sporti, delle tettoie. Solo in un secondo momento ho sentito la puzza di letame provenire da quegli edifici e ho capito che erano le stalle dei muli: quella mattina di inizio anni Ottanta, in una città di montagna con i bar e le brioche calde, ci trovavamo in una piazza d’armi a ridosso delle stalle, come nell’Ottocento o agli inizi del Novecento in una qualsiasi fredda Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari, ma in mezzo alle Dolomiti.

Abbiamo udito una voce dire: «I topi», e un’altra specificare: «I topi smàrsi», marci. Comparvero altri vèci, sempre con le mani in tasca e i berretti con le visiere calate sugli occhi, e rispetto a quelli del Car questi sembravano aver fatto la guerra sulle Tofane, in Africa, in Montenegro. Uno di loro, senza nessun motivo, ha dato un calcio alla borsa valigia del compagno che stava al mio fianco, e quando il legittimo proprietario ha cercato di recuperarla, il vècio gli ha urlato: «Att-i!», che era una specie di attenti, ma non si era capito bene, così lui è rimasto impaurito e immobile. «Ti si sfigà» ha mormorato il soldato con l’accento vicentino: sei condannato.

Quando è arrivato l’ufficiale di picchetto, il capobanda dei vèci ha detto una sola parola: «Dileguémo», dileguiamoci. Nei giorni e nelle settimane seguenti, la nostra vita di topi si svolse nel piazzale ghiaioso, insieme ai muli. Il mulo è una bestia grande, frutto dell’incontro combinato tra un asino e una cavalla, un figliolo che è una bestia da soma, anzi è la bestia da soma. In quelle mattine di febbraio i muli respiravano l’aria gelida e ne soffiavano fuori il vapore, o meglio la puzza. Non poteva essere solo il letame, doveva essere la bestia tutta intera, il suo pelo che aveva quell’odore pungente. O forse era l’alito: la nuvoletta che usciva dalle narici era essenza di mulo, che alle nove di mattina aveva già appestato il piazzale. Uno dei primi lavori da topi consistette nel caricare con la forca un camion di letame, e un altro compito fu quello di imparare a strigliare il mulo a dovere. Mi toccò la Veneta, che era nervosa, grande, calda. Avevo confidenza con le bestie, mio nonno teneva ancora le vacche nella stalla e io gli avevo sempre dato una mano, anche se malvolentieri, fin da ragazzino, e forse questa pratica contadina era uscita da qualche mia risposta alle domande che mi erano state fatte durante la visita di leva.



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