Il terzino e il Duce by Alessandro Fulloni

autore:Alessandro Fulloni [Fulloni, Alessandro]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Solferino
pubblicato: 2024-09-15T00:00:00+00:00

Quell’ultimo incontro

tra Arpinati e il Duce

Attorno al 25 settembre la composizione del governo fu terminata. I membri della raccogliticcia lista furono convocati alla Rocca. Ad accompagnarli fu Eugen Dollmann, il colto interprete degli incontri ufficiali tra Hitler e Mussolini e potentissimo colonnello delle SS protetto direttamente da Himmler, numero due del regime nazista.

Dollmann, con insospettabili contatti in Vaticano e frequentatore dei salotti romani, era uno charmant quarantaquattrenne di bell’aspetto e dai modi eleganti, omosessuale, e chissà se in quei giorni già «agganciato» dagli americani dell’Office of Strategic Services (Oss), il servizio segreto antesignano della Cia, con cui poi, a partire dalla metà del 1944, cominciò a trattare la resa delle forze armate tedesche in Italia.

La partenza della delegazione da Roma, a metà mattinata del 26, non fu un esempio di efficienza tedesca. L’ambasciata aveva promesso all’ufficiale delle SS degli Junkers da trasporto, ma gli aerei, nel disastrato scalo di Ciampino preso più volte di mira dalle bombe alleate, non si videro.

Il colonnello, un insolito tedesco di fantasia latina, non si perse d’animo e improvvisò una soluzione all’italiana recuperando qui e là diverse auto a bordo delle quali fu raggiunta la Romagna. Quando il gruppo, introdotto dallo stesso gioviale Dollmann, giunse alla Rocca – è il racconto di Vito Mussolini –, fu accolto da Monzeglio, già lì da qualche giorno, che li portò a salutare il Duce, rientrato intanto dalla Germania.

Consapevole della scarsezza dell’organigramma di governo, fu inevitabile per Mussolini giocarsi un’ultima briscola – ma quella che considerava l’asso – per provare a portare nell’esecutivo il nome di maggior rilievo: Leandro Arpinati, che dieci anni prima era considerato uno dei suoi delfini.

Per Eraldo, Arpinati era soprattutto il punto di riferimento che lo aveva reso grande al Bologna e che aveva imposto Pozzo alla guida degli azzurri vittoriosi a Roma e Parigi.

Ma da tempo il profilo di Leandro non era più quello di un fascista. Lo stesso Mussolini non sapeva che Arpinati fosse entrato, e in modo piuttosto corposo, nella fitta rete di contatti che avevano portato agli intrighi, convergenti e paralleli, conclusi con il voto al Gran Consiglio e con il proprio arresto a Villa Savoia.

Con Galeazzo Ciano Arpinati si era incontrato almeno cinque volte, tra il 16 ottobre 1941 – quando il genero del Duce lo descrisse nei suoi diari come «anticorporativo, anticomunista, antitedesco» – e il 24 settembre 1942. Poi, un paio di volte con Dino Grandi, il quale concordava che Mussolini fosse da abbattere, anche se per l’ambasciatore «il tempo non era ancora maturo». A Napoli, Firenze e Bologna, Leandro vide il principe Umberto e il duca Pietro d’Acquarone, che era il ministro della Real Casa e soprattutto il «regista» indiscusso delle manovre contro il Duce. Incontri coordinati come in un romanzo di spionaggio: incroci apparentemente casuali, lunghi giri per depistare eventuali pedinamenti e infine il cenno veloce di salire su un’auto arrivata d’improvviso. Ai due ambasciatori del re, Arpinati ripeté sempre le stesse idee: serviva abbattere al più presto il fascismo e subito dopo mandare tutto l’Esercito a bloccare il Brennero.

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