Io, killer mancato: Il giornalista cresciuto con i mafiosi (Italian Edition) by Francesco Viviano
autore:Francesco Viviano [Viviano, Francesco]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Social Science, Criminology
ISBN: 9788861906518
Google: d-8VBAAAQBAJ
Amazon: B00M49N098
editore: Chiarelettere
pubblicato: 2014-09-25T00:00:00+00:00
«Mio figlio, inviato della Repubbrica»
Nel 1984 fui finalmente assunto allâAnsa come giornalista. Ce lâavevo fatta. E mia madre era ancora lì, a pulire gli uffici. Era lei che spolverava il mio tavolo, e avrebbe continuato a farlo per molti anni ancora. Era unâoccasione per vedermi e stare con me, sia pure per poche ore, nei giorni in cui avevo il turno di mattina. Quando le dicevo che ormai avevo uno stipendio e potevo mantenere pure lei, insinuava che mi vergognassi del suo lavoro, ora che ero diventato giornalista. Sapeva benissimo che non era vero: allâAnsa tutti conoscevano la nostra storia. Io non mi vergognavo affatto, anzi ero orgoglioso, e lei più di me, che dal vicolo Arena dellâAlbergheria fossimo arrivati fino al grattacielo di via Amari.
«Che hai mangiato oggi? Copriti bene, non ti ritirare tardi» diceva quando mi mandavano fuori Palermo. Se partivo come inviato per lâIraq o lâAfghanistan non le dicevo nulla. La chiamavo tutti i giorni, per evitare che lo facesse lei nel mezzo di un bombardamento, raccontandole che mi trovavo in posti tranquilli come la Svizzera o la Francia.
Mia madre sapeva che ero molto intraprendente e temeva che mi mettessi nei guai, ma anche lei commetteva delle ingenuità . Aveva cominciato a frequentare la famiglia di Gaspare Mutolo, che era diventato collaboratore di giustizia. Era pericoloso, perché in quel periodo molti familiari di pentiti venivano ammazzati. Un giorno le dissi chiaro e tondo: «Ma insomma, mamma, lo vuoi capire che ti potresti trovare in mezzo a una sparatoria? Potrebbero decidere di colpire i familiari di Gaspare. Non ci andare, per favore». Ma lei non mi dava retta.
Continuò a lavorare finché ne ebbe le forze, poi si ritirò in pensione. Aveva gravi problemi alle ossa; negli ultimi anni lâosteoporosi la costrinse sulla sedia a rotelle. Morì il 10 ottobre 2010, nellâospedale dovâera stata ricoverata per una gravissima emorragia. Non ci fu nulla da fare: aveva un cancro ed era inoperabile. Qualche giorno prima che spirasse mi prese la mano e disse al medico che stava passando davanti al suo letto: «Dottore, questo è mio figlio, è inviato della Repubbrica». Avevo cominciato a collaborare nel 1985 con il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e nel 1998 avevo lasciato lâAnsa perché «la Repubblica» mi aveva chiesto lâesclusiva per assumermi. Mia madre, che era analfabeta e parlava male lâitaliano, ne storpiava il nome.
Vicina alla fine, ripeteva che aveva dei rimorsi nei miei confronti. Ribattevo: «Mamma, hai dato lâanima per sopravvivere e farmi crescere! Sono io che dovrei avere dei rimorsi verso di te». Ma lei insisteva: «Per tanti anni, quando eri bambino, non ho potuto cucinarti né farti il pranzo, perché lavoravo sempre». Piansi, ma lei morì felice perché ero diventato un giornalista anziché un delinquente, e stavo per ricevere dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premio come «cronista dellâanno». Era orgogliosa che andassi al Quirinale.
Quando ricevetti la foto della cerimonia pensai che sarebbe stata felice di metterla assieme a quelle che teneva nella sala da pranzo e mostrava alle amiche: «Ecco, vedi, quello è papa Wojtyla con mio figlio».
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