La squadra spezzata by Luigi Bolognini
autore:Luigi Bolognini
La lingua: ita
Format: epub, azw3
Tags: calcio, ungheria, Budapest, mondiali, Ferenc Puskás, Vite inattese, Gianni Mura
editore: 66THAND2ND
pubblicato: 2016-09-19T16:00:00+00:00
La caduta degli dèi
Naturalmente «Népsport», uscito listato a lutto gridando al complotto plutocratico, non riportò nulla della sommossa, né tantomeno «Szabad Nép». D’altronde i giornali non avrebbero saputo che scriverne, perché il Partito era stato spiazzato dagli eventi. Aveva pianificato in ogni dettaglio le feste popolari e di piazza per la vittoria della Rimet, ma non aveva nemmeno pensato a un piano B, tanto improbabile era apparsa l’ipotesi di un’eventuale sconfitta. Tutto quello che fece fu bloccare la squadra che tornava a Budapest alla frontiera di Hegyeshalom e dirottarla a Tata, dove c’era il centro di allenamento federale, per evitarle conseguenze fisiche. Ad attenderla c’era Rákosi, che ringraziò comunque i giocatori per l’impegno, almeno fino all’ultima partita, e ai quali chiese di sparire dalla circolazione per qualche giorno, per far sbollire gli animi dei tifosi che, sfogata la rabbia, si erano dati a una delle indiscusse arti degli ungheresi, il brontolio continuo, e a una serie di ipotesi sulla sconfitta, alcune delle quali strapparono quasi un sorriso anche a Gábor: «I tedeschi hanno fumato oppio», «L’arbitro è stato corrotto», «Il guardalinee Griffiths è un noto germanofilo», «L’acqua nell’albergo di Solothurn è stata avvelenata», «Sebes ha fatto giocare Tóth in finale solo perché è suo genero» (il tecnico rispose facendo pubblicare sui giornali una sua foto con la figlia, che aveva dieci anni). L’Aranycsapat tornò a Budapest qualche giorno dopo, alla chetichella, e per una volta fu contenta che non ci fosse gente ad attenderla.
Finì l’estate e tutto cambiò per Gábor, che passò dai Pionieri, la sezione per bambini del Partito, alla Disz, quella per chi aveva almeno quattordici anni. Contemporaneamente, finite le scuole primarie, andò a lavorare. Servivano soldi, in famiglia, e scelse di fare l’apprendista tappezziere. Il suo padrone, il signor Misur, era molto buono: lo pagava cento fiorini alla settimana anche se la paga imposta era di sessanta e tollerava – d’altronde non poteva fare altro, se voleva evitare guai – che due giorni a settimana il suo ragazzo di bottega frequentasse la scuola di mestieri Közgazdasági Technikum. Studiava matematica, storia, tessuti, mestiere, cultura militare e un’ora al giorno di politica, che era in sostanza la lettura e il commento dell’editoriale di «Szabad Nép» in una grande aula sotto il ritratto di Rákosi, che era restato segretario del Partito anche con Nagy primo ministro. Sorrideva sempre quando sentiva parlare degli stivali del comunismo che avrebbero presto schiacciato le decadenti nazioni borghesi, ma era un sorriso un po’ malinconico perché associava questa frase alla Coppa Rimet e agli scarponi dei tedeschi, che probabilmente avevano i cingoli visto che non si erano impantanati nel fango del Wankdorf.
Al signor Misur invece della politica importava poco, preferiva parlare di lavoro. Che per lui era ripreso, ultimamente, dopo un lungo periodo nero dovuto alla crisi economica. Ma non nel senso che si risparmiava sul superfluo: quello si era sempre fatto. Era successo, nell’immediato dopoguerra, che – tra raccolti scarsi e trattati internazionali che imponevano all’Ungheria pagamenti onerosissimi – era partita un’inflazione da
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