Una porta nel cielo by Roberto Baggio

Una porta nel cielo by Roberto Baggio

autore:Roberto Baggio [Baggio, Roberto]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2012-04-29T10:52:38+00:00


Al Diavolo

Già vola il fiore magro dai rami. E io attendo la pazienza del suo volo irrevocabile.

Salvatore Quasimodo, Già vola il fiore magro, in Nuove Poesie Mi dicono: hai vinto poco per quello che vali. Non mi sono mai posto il problema.

Non ho mai misurato la bravura di un giocatore, la sua professionalità, in base all’albo d’oro o al curriculum.

Un giocatore lo giudichi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia, cantava ancora De Gregori.

Ero arrivato a 27 anni senza vincere mai lo scudetto. “Finora ho vinto trofei da bar, ora voglio vincere qualcosa di serio”. Lo avevo detto con l’arrivo di Trapattoni alla Juve, ma lo scudetto non era arrivato. La Fiorentina non aveva lottato per quel traguardo, perlomeno non quella in cui avevo militato io. Lì e era da pensare anzitutto alla salvezza, poi se andava bene ti trovavi in Uefa, e a quel punto te la giocavi.

Con la Juventus, gli obiettivi erano quelli di una società avvezza al dominio: vincere, contava solo il primo posto. I primi quattro anni non ci riuscimmo. Nonostante Maifredi, nonostante Trapattoni, nonostante Vialli. Lho detto e lo ripeto: la colpa non era nostra, ma di un Milan irraggiungibile.

Dopo dieci anni di carriera, avevo vinto, eccezion fatta per il Pallone d’oro, soltanto una Coppa Uefa. Eppure non mi sentivo sprecato, l’unica vera ferita che sanguinava, che sapevo già non cicatrizzabile, era la finale. Quel Mondiale maledetto.

Tornato dall’America mi capitò un fatto importante, che da solo giustificherebbe un’intera carriera. Vinsi due scudetti in due anni, consecutivamente, con due maglie diverse.

Il primo arrivò con la Juve di Lippi. Fu una stagione che vivemmo da dominatori, che io non giocai per intero perché a Padova mi infortunai di nuovo, al ginocchio, evia, altri due mesi fermo. Dissero che avevo vinto uno scudetto dalla panchina, ma era una cattiveria.

Quello scudetto lo sentivo mio, sapevo che le mie reti, i miei assist, erano serviti, e molto.

Eppure quel retrogusto amaro me lo sentivo sempre lì, sulla lingua. Sarà stato l’infortunio, sarà stato che, da una società alla quale avevo dato molto per quattro anni, mi aspettavo un po’ di riconoscenza. Sarà stato per questo o per altro ancora, ma, quando la nuova dirigenza, Moggi-Bettega-Giraudo, mi disse che non rientravo nei loro piani, e me lo disse senza ricorrere a giochi di parole, proprio come fece Umberto Agnelli, beh, quando mi dissero questo, ebbi la conferma che la vittoria non è, non sarà mai, tutto.

Poi il Milan. Mi volevano in tanti, scelsi il Milan perché fu quello che mi volle di più, o che me lo fece capire meglio. Proprio il Milan, che mi voleva già anche ai tempi fiorentini. E anche lì, con Capello, scudetto. Per loro, il quarto in cinque anni. Per me, il secondo in due anni. Quello di Weah, di Savicevic, di Maldini. E di Roberto Baggio. Fu una bella annata, anche se forse Capello mi tolse qualche volta dì troppo, lui diceva per preservarmi, e sicuramente ne era convinto, solo che io non avevo bisogno di essere preservato, io stavo bene.



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