Le cose che abbiamo in comune sono un milione e 250 by Fabrizio Franceschini

autore:Fabrizio Franceschini [Franceschini, Fabrizio]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Newton Compton
pubblicato: 2012-01-01T23:00:00+00:00

CAPITOLO UNDICESIMO

U

na volontà suprema si era impossessata del mio corpo e costringeva i miei occhi a restare

chiusi. Un nodo in gola mi impediva di respirare regolarmente, privandomi di ogni energia possibile.

Aspettavo che da un momento all’altro si manifestasse lo scheletro umano con una delle sue

diavolerie, invece sentii la piacevole voce di Annet. Parlava sottovoce esprimendosi in danese e chi

l’ascoltava annuiva con dei “uhm, uhm” preoccupati.

Non era stato difficile capire che non mi trovavo nel mio letto, ma su una superficie fredda e dura.

Qualcuno mi aveva tolto le scarpe ed ero coperto da un lenzuolo fino al collo. Provai a muovere una

mano e i polpastrelli toccarono una liscia lastra d’acciaio. Probabilmente mi trovavo disteso su un

tavolo da lavoro, uno di quei banconi usati per pulire il pesce o qualcosa di molto simile. Sentivo

anche la voce di Mario, il cazzone di mio suocero, e quella di una terza persona che non conoscevo.

La mano continuava a esplorare quel mondo sconosciuto e quando il palmo sfiorò i fianchi, compresi

d’essere completamente nudo.

Sentivo i muscoli abbandonati all’inerzia. Tastando quei tessuti molli, feci scivolare le dita fino ad

arrivare giù all’inguine, mi toccai le palle e con terrore mi resi conto che avevo un cannello di

plastica che mi usciva dal pisello.

Scattai per scendere e scappare, ma un dolore insopportabile al petto mi costrinse a distendermi di

nuovo. Mi calmarono e mi spiegarono che mi trovavo nello studio del dottor Sorensen, medico

personale di Mario, nonché suo urologo.

Annet era incazzata nera e quando i nostri sguardi s’incrociarono, fui sopraffatto da un senso di

colpa che mi costrinse a girare la testa, incontrando il volto nervoso di Mario, poi lo sguardo assente

del dottore, distratto da un paio di guanti in lattice.

Si era creata una situazione surreale, tutto si muoveva al rallentatore e le parole rimbombavano

incomprensibili, come un quarantacinque giri sentito a trentatré.

Qualcosa mi raschiava la gola e visto che non riuscivo a ricordare cosa mi fosse capitato, provai a

chiedere. Come risposta mi adagiarono delicatamente da un lato e il dottor Sorensen mi cacciò un

dito nel culo.

Indubbiamente dovevo averla combinata grossa!

* * *

Nonostante conoscesse soltanto il dialetto romano, mia madre riuscì a mettersi in contatto con

mio padre per comunicargli della corrispondenza ricevuta. Ci aveva pensato tutta la notte, poi di

buon’ora, tramite telefono, aveva parlato non so con quanti centralinisti, fino ad arrivare alla bionda

che lavorava alla reception dello Scandic Hotel. Quella telefonata animò una discussione tra mio

padre e mio cugino, il quale ricordandosi che era stato il mio primo modello da seguire, tentò con

tutti i suoi argomenti di convincere suo zio a tornarsene a casa.

Mentre spalmava burro su alcune fette di pane color castagno, nella sala ristorante dell’albergo,

disse a mio padre: «Ci ha fregati, a questo non abbiamo pensato».

«Non è così furbo», rispose, pulendo con un cucchiaio il guscio di un uovo alla coque.

«Adesso starà ridendo alla faccia nostra su qualche isola sperduta, come fu quando andò su quella

greca, che non si sa perché gli sia piaciuta così tanto».

«Lo so io il perché e pulisciti il latte ai lati della bocca, sembri un ragazzino».

«Per me, sia la telefonata, che la cartolina sono dei depistaggi.

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