Adua by Igiaba Scego

Adua by Igiaba Scego

autore:Igiaba Scego [Scego, Igiaba]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Giunti
pubblicato: 2015-09-01T22:00:00+00:00


19

Adua

Durante la lezione di storia fui convocata nell’ufficio del preside.

Non era mai successo.

Non avevo fatto nulla di male, almeno non me lo ricordavo.

Era una calda giornata del 1976. Credo fossimo a novembre. A Magalo il sole picchiava forte. Le piogge ormai un ricordo lontano. «Arriverà una forte carestia» dicevano i vecchi. Mi tremavano le gambe. Gocce di paura imperlavano il mio viso ovale. Guardai il preside dritto negli occhi. Nelle mie pupille una supplica. “Faccia presto.” Ma il preside non parlava, si limitava a guardarmi e a scuotere la testa. Poi cominciò a giocherellare con una penna e un foglio. Fece un paio di scarabocchi. Io non distoglievo lo sguardo, ero come bloccata. Dovevo guardare il pavimento, essere più umile. Invece la mia pupilla si fissò alla sua. Aveva degli strani occhi verdi. Non fiatai.

«Suo padre è stato arrestato» disse in tono solenne.

Abbassai lo sguardo. Ora davvero non aveva più senso fissare il preside. Non volevo vedere la sua espressione di trionfo disegnata sul volto. Il preside odiava mio padre. Lo odiavano tutti gli uomini del nuovo regime di Siad Barre. Mio padre non nascondeva la sua avversione per il dittatore e per il nuovo corso che aveva preso la politica somala: «Ci porteranno alla rovina questi comunisti» continuava a dire. Hagiedda Fardosa lo pregava di stare zitto. Ma lui continuava a parlare male. «Porcheria» e sputava per terra una saliva densa a dimostrazione di tutto il suo disprezzo. «E alle tue figlie non pensi?» gli chiedeva Hagiedda Fardosa. «Non pensi al loro futuro? Pagheranno le tue colpe se continui a comportarti così.»

«Se la caveranno. Sono grosse ormai. Non posso pensare a loro. C’è la mia coscienza.»

Mi aspettavo quell’arresto. Ce lo aspettavamo tutti.

Ero lì in piedi, muta, in attesa di essere congedata. Il preside però non mi lasciava. Continuava a giocare con la sua penna, con i suoi scarabocchi.

«Suo padre» disse rompendo di nuovo quel silenzio così amaro «è stato accusato di insubordinazione. È un’accusa molto grave.» Annuii, stanca di quella commedia mal scritta. «Non ha la lingua?» fui redarguita e mi affrettai: «Sì, signor preside, è un’accusa molto grave». Cosa dovevo fare? Scusarmi? Voleva che mi prostrassi ai suoi piedi? Voleva che mi strappassi i capelli? Cosa voleva? Poi mi guardò con quella sua pupilla fissa, nera e vuota. «La tengo d’occhio, sa come si dice? Tale padre, tale figlia.» Fui lasciata andare e tornai in classe. Nessuno mi chiese perché il preside mi avesse convocato. Nessuno parlò con me a fine lezione, nemmeno Muna la Crespa, la mia amica del cuore in quel momento. Nemmeno tu, Muna, parli più con me? Tu che sei scansata da tutti perché sei una geerer testacrespa? Tu che sei considerata di casta inferiore, una somala bantù dal grande naso e dalle grosse natiche? Anche tu, Muna, mi tradisci così? Ero diventata improvvisamente una paria. Da evitare. Quando tornai a casa Hagiedda Fardosa era lì con una faccia più lugubre del solito e delle guance gialle che ben attestavano lo stato comatoso del suo fegato.



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