Atlante immaginario by Lupo Giuseppe
							 
							
							
							
							autore:Lupo, Giuseppe [Lupo, Giuseppe]
							
							
							
							La lingua: eng
							
							
							
							Format: epub
							
							
							
																				
							
							
							
							
							
							
							pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00
							
							
							
							
							
							
26.
Alla periferia del mondo, con il suo Dio
Il gesto di dimettersi, compiuto da Benedetto XVI, non può non evocare qualcosa di già raccontato in quella infinita narrazione del mondo che è la letteratura. Il pensiero corre a Pietro del Morrone, un uomo abituato a cibarsi di solitudine, che per uno dei tranelli del destino si è ritrovato papa con il nome di Celestino V. Quanto avrebbe retto uno così? Agli occhi dei contemporanei fu considerato un vigliacco e Dante lo collocò fra gli ignavi: meglio non curarsi di lui e passare oltre. La cultura del Novecento lo ha riabilitato, elevandogli un altare di pietà nell’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone. Chiediamoci chi ha sbagliato: Dante o Silone? Forse nessuno. Avevano ragione entrambi, pur essendo agli antipodi.
Il secolo scorso ci ha abituati a simili capovolgimenti e per questo è un’epoca che seduce, anche se mastichiamo e digeriamo a fatica molte delle sue manifestazioni; sentiamo che qualcosa di oscuro è rimasto prigioniero fra le pieghe dei giorni, eppure siamo portati ad amarli, i suoi cento anni, i fantasmi e le luci, più di altre epoche. Il vero problema è che Dante e Silone hanno creduto in utopie differenti. Sono stati scrittori in fuga, hanno sperimentato l’amarezza dell’esilio, hanno subito l’oltraggio della Storia, ma sembrano obbedire a religioni diverse. Il Dio di Dante è supremo, totale, epico, vive nei cieli cristallini, ha la mano ferma sui piatti della bilancia e il mondo ai piedi, è il padrone del futuro. Quello di Silone invece abita nelle piazze dove si pronunciano i comizi, partecipa ai cortei sindacali, visita i sobborghi operai in città piene di emigranti e spezza il pane sui tavoli delle mense aziendali. È il Dio di chi è rimasto alla periferia della civiltà e fatica a entrarci.
È il mio Dio. L’ho visto indossare i panni di un’umanità abituata a vivere nel sottosuolo del tempo, popolata da mille volti con i segni inequivocabili che don Lorenzo Milani chiamava la «timidezza dei poveri» (Lettera a una professoressa). Poi, improvvisamente quei volti sono spariti. L’euforia di un’Italia che voleva dimenticare di essere stata misera, l’entusiasmo che ha ravvolto il decennio successivo agli “anni di piombo” e che ha spinto gli individui a cercare solo il divertimento, ce li hanno sottratti. Senza accorgercene, eravamo diventati ricchi proprio mentre Tardelli faceva il giro del Bernabéu dopo aver segnato il goal del 2 a 0 nella finale mondiale del 1982. Indigenza, bisogno, ristrettezza erano termini che appartenevano a un vocabolario dimenticato in soffitta: evviva la Milano da bere! Poi pian piano, con gli anni Novanta, a onde sempre più ravvicinate, quei volti sono riapparsi: polacchi, albanesi, slavi, ivoriani, senegalesi, algerini... Un corteo di lingue sconosciute è tornato a riempire le nostre orecchie ballerine, erano uguali negli accenti e nella voce, anche se ancora sommesse. Tutto il passato, che avevamo ricacciato nel magazzino più profondo della memoria, si è riaffacciato intatto e dolente, identico a quello di ieri, come una babele di preghiere che sciamava agli incroci dov’erano i semafori, sulle scale dei metrò, davanti ai sagrati delle chiese.
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