Invano by Filippo Ceccarelli & Ceccarelli Filippo

Invano by Filippo Ceccarelli & Ceccarelli Filippo

autore:Filippo Ceccarelli & Ceccarelli Filippo [Ceccarelli, Filippo & Filippo, Ceccarelli]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Feltrinelli Editore
pubblicato: 2018-10-23T22:00:00+00:00


Selezione e educazione dei quadri

A quel tempo i D’Alema, i Fassino e i Veltroni avevano già iniziato a far carriera – anche se nessuno avrebbe usato la parola “carriera”, che sapeva troppo di ambizione e mestiere, mentre la loro era piuttosto una vocazione che contemplava umiltà e spirito di sacrificio, disciplina e disponibilità.

Fu quella l’ultima leva di dirigenti a disporre di una autentica scuola politica. Le cariche, o meglio gli incarichi, non si chiedevano, semmai si accettavano. Rifiutare non era tanto possibile, specie quando a occuparsene era Longo, un curriculum impeccabile di comunismo in Italia e fuori, capo militare della Resistenza, l’uomo che aveva firmato la condanna a morte di Mussolini.

Il classico personaggio di poche parole, tratti e gusti di ruvidezza contadina, anche gastronomica (Amendola gli rinfacciava di mettere il vino nel brodo), ma soprattutto di impressionante determinazione. A Rossana Rossanda, che faceva “i capricci” per non lasciare la federazione di Milano e stabilirsi a Roma dove era stata comandata, si deve il racconto di come molto a suo modo Longo risolse la questione, invitandola a cena. Andarono dunque in una modesta trattoria e lì “mi espose, con voce calma e gli occhi lontani, come fosse sempre un po’ al di là del mondo, che la direzione mi voleva eccetera. Io mi diffusi lungamente sulle urgenze che avevamo a Milano e le molte ragioni per declinare l’offerta, ragioni che mi parevano molto militanti e persuasive. Lui aspettò che finissi e poi proferì, dandomi del voi: Ascoltate. Io non invito a cena nessuno, sono avaro. Ho invitato voi perché i vostri compagni mi hanno detto che facevate obiezioni all’incarico. Vi ho spiegato perché la direzione ha deciso che veniate a Roma. Non fatemelo ripetere. Trovatevi a Roma a dicembre. Non aggiunse: è un ordine, non fece alcun numero speciale, era chiaro che non avrebbe ascoltato più nulla, era bell’e stufo. Io rimasi a bocca aperta”.

Era chiaro. Prima il partito e poi le persone, questo valeva anche al momento delle elezioni: “Se dalle urne veniva fuori che avevi preso più preferenze di quanto s’era ipotizzato,” a detta di Walter Tocci, “il partito ti rimbrottava,” là dove il rimbrotto “costituiva una buona base per una terapia antinarcisistica”.

Secondo Edoardo Novelli, studioso di comunicazione cresciuto in una famiglia torinese che più comunista sarebbe difficile trovare, il Pci era inteso “come una sorta di entità metafisica nei confronti della quale c’era una condizione di reverente e tacita sudditanza”. Per quanto la faccenda potesse suonare astratta, nei fatti occorreva aver fiducia e obbedire. Dalla lotta politica non ci si aspettavano benefici, tutto il resto, comprese le soddisfazioni, sarebbe arrivato secondo un ordine per molti versi prefissato nella sua infallibilità.

Alla metà degli anni settanta i meccanismi della selezione dei dirigenti erano più o meno quelli solidi e meticolosi che avevano funzionato per decenni. I giovani compagni più promettenti venivano notati, segnalati, osservati, ma soprattutto costruiti, quindi messi alla prova negli organismi superiori, e mandati a farsi le ossa in periferia. Ha spiegato Alessandro Natta che il Pci si muoveva “con la logica del partito-Stato.



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