Great Jones Street by Don Delillo

Great Jones Street by Don Delillo

autore:Don Delillo [DeLillo, Don]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
ISBN: 9788858401903
editore: Einaudi
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Capitolo quattordicesimo

L’hashish fumato negli alberghi ha sempre qualcosa di malefico. Ricordavo la sensazione di avere il centro della testa occupato da qualcosa che cercava di espandersi, di uscire esercitando una pressione spaventosa. Ci trovavamo in vari motel tra un volo e l’altro, o tra un concerto e l’altro, o tra un volo e un concerto o viceversa. Il motel non era mai lo stesso, ma il tempo del motel era sempre identico, dovunque ci trovassimo. La tensione dell’attesa non aveva mai spigoli: era un unico sconfinato piano bidimensionale di tempo privo di soluzioni di continuità. In genere ci trovavamo alla periferia di qualche grande centro abitato (non necessariamente una città) e ce ne stavamo seduti per terra o sul letto, mai sulle sedie, ad aspirare hashish di pessima qualità in attesa che l’immancabile limousine uscisse dal suo parcheggio tra le boscaglie di plastica, un carro funebre comicamente elegante destinato a contenere sei o sette fra musicisti, road manager, bionde altissime dalle gambe perfette, quasi tutti in abiti vecchi e logori, jeans da barbone e stivali scalcagnati, tutti impregnati di marijuana, occupati a orientarsi in mezzo alle incoerenze della vita per poi scoprire che l’impresa è impari.

Ma sono soprattutto le camere in cui si dipanava questa nostra attesa che ricordo bene. Di un anonimato che sembrava possedere un centro preciso, un segreto distante, raggiungibile solo per mezzo delle energie sguinzagliate da certe droghe. L’hashish, in un ambiente simile, era strano, sembrava una droga fasulla e tecnologica fabbricata e commercializzata sotto controllo statale, quasi un’arma tattica creata da un inventore dilettante al piú infimo dei livelli industriali. Non c’era piú nulla di sicuro, né via certa per raggiungere il centro. In quei momenti ero terrorizzato e completamente immobile, diffidente di chiunque si trovasse con me nella camera, mi sentivo appesantire con ogni secondo che passava. Mi sembrava di avere nel cranio una specie di motore organico e pulsante. Spesso facevo del mio meglio per uscire da quella congiuntura di terrore e sballamento usando la razionalità. Ma le zone di pressione erano troppe e troppo concentrate, in quell’universo c’era troppa gravità, e per quanto non riuscissi mai a riconciliarmi con l’orrore finale, non ero mai in grado di resistere alla verità del fatto che gradualmente mi trovavo classificato in categorie ancora piú immobili, quelle a cui appartenevano la sedia, il letto, la stanza o tutto il motel in cui mi trovavo volta per volta. (È stato durante una di quelle mezze ore di follia pensosa che ho creato il nome «Transparanoia» per battezzare il nostro coacervo di holding, fiduciarie, acquisizioni e cabale finanziarie, che si espandeva come una macchia di inchiostro). Nella piú anonima delle camere nulla era comprensibile. Aspettavamo di venire accompagnati a uno stadio, a un centro congressi, a un teatro o palazzetto dello sport e poi collegare gli strumenti agli amplificatori, e poi sentirci percorrere il sangue da quel ronzio beneaugurante di corrente elettrica, dare al pubblico il sangue che desiderava, vergini cieche nude su piedistalli di polistirolo, venditori di



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