Il colore dell'inferno. La pena tra vendetta e giustizia (Bollati Boringhieri) by Umberto Curi

Il colore dell'inferno. La pena tra vendetta e giustizia (Bollati Boringhieri) by Umberto Curi

autore:Umberto Curi [Curi, Umberto]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri editore
pubblicato: 2019-12-05T23:00:00+00:00


Un dono che acceca

L’intera vicenda del Titano ribelle può dunque essere letta come descrizione del processo di costituzione del genere umano in quanto stirpe di individui che sperano – e con questo sperare e in virtù di esso si contrappongono alla morte. Per quanto ancora in maniera nebulosa e indiretta, si profila qui un aspetto assolutamente fondamentale, sebbene perlopiù travisato o totalmente ignorato, riguardante la «congruità» della sanzione inflitta a Prometeo, e prima ancora l’identità di colui che commina il castigo. In altre parole, una volta che cominci a dissiparsi la nebbia dell’apologia tecnologica e dell’ideologia superomistica, dalla quale il mito è stato avvolto soprattutto fra la fine del Settecento e la conclusione del secolo successivo, emerge la centralità di un interrogativo sovente trascurato, quale è quello riguardante l’identificazione della vera natura della «colpa» commessa dal figlio di Giapeto e, di conseguenza, anche di chi sia davvero l’offeso da tale colpa, e quale motivazione abbia infine l’atroce supplizio inflitto al reo.

I contorni di questo problema in ogni senso decisivo possono ora essere considerati tracciati. Prometeo è colpevole non di aver donato al genere umano facoltà e poteri straordinari, ma piuttosto di aver costituito il genere umano per quello che è – una stirpe di individui che, mediante le invenzioni e con l’uso della téchne, esprimono la loro speranza contro la morte. Il sacrilegio di Prometeo si chiarisce non come generica violazione della timé di divinità «minori», ma come oltraggio rivolto direttamente al nume olimpico, e alla potestà di cui egli è custode. Qualcosa che non si riduce alla disponibilità di risorse poietico-trasformative, pur sempre limitate e comunque compensate da contraccolpi negativi, ma che è connesso al principio che più di ogni altro distingue gli dèi dagli uomini.

Da questo punto di vista, Prometeo può essere annoverato fra i «grandi peccatori» – come Sisifo e Tizio, come Tantalo e Issione – per essere responsabile non di una colpa indeterminata, e neppure di una forma di generica hýbris, ma per aver cercato di infrangere il principio di individuazione della condizione umana, la sua peculiare differenza rispetto agli dèi: l’essere soggetta alla morte. Grande pena, eterna e irredimibile, dunque, perché grande, smisurata, colpa. Commisurata al contrassegno della mortalità, che è proprio dei brotói, la philanthropía di Prometeo assume un significato molto più determinato, comunque irriducibile a un mero empito sentimentale, o a una deliberata volontà di violare la sfera di attribuzione delle divinità. Nessun intento di arbitrario privilegiamento muove il Titano,56 né alcuna hýbris è all’origine del suo comportamento.57 Piuttosto, ciò contro cui egli combatte, pagando in maniera terribile il fio per questa temerarietà, è per l’appunto la piaga che più di ogni altra affetta gli uomini – quella morte che fa degli umani dei meri ephémeroi, esseri destinati a «vivere un solo giorno».

In altre parole, il ruolo svolto da Prometeo nell’Incatenato, ma anche nelle altre versioni classiche del mito, è quello del grande odiatore della morte: «Aver trasformato l’oggettiva nullità degli uomini non semplicemente nella loro capacità di esistere, ma nel loro merito di esistere, è una violazione dell’ordine del mondo che lo stesso Prometeo non contesta».



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