Italiani si Diventa by Beppe Severgnini

Italiani si Diventa by Beppe Severgnini

autore:Beppe Severgnini [Severgnini, Beppe]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2011-12-17T16:41:03+00:00


Austeri e sportivi

1973

Quando ha scelto una parola inglese per riassumere i suoi guai, avrei dovuto capire che l'Italia si stava mettendo su una brutta strada. Austerity — la necessità di risparmio energetico indotta dalla crisi petrolifera del '73 — era molto simile all'equivalente vocabolo italiano. Solo una piccola differenza di vocali e d'accento, che suggeriva non una necessità linguistica, ma uno schietto provincialismo. Del periodo non ho, tuttavia, un cattivo ricordo: le allegre domeniche senza automobile — il modo, classico, in cui l'Italia trasformava un problema in una festa —erano accettabili, non potendo guidare l'automobile. La nazione riscopriva biciclette e monopattini, tandem e tricicli, cavalli e carrozze; e con quelli si esibiva e si divertiva, sperando segretamente che gli sceicchi arabi continuassero a tenere alto il prezzo del petrolio. Solo Diogene, in passato, si era divertito tanto con un barile.

Quell'effimera rinuncia ai motori richiedeva una buona forma fisica. Occorrevano fiato per lamentarsi, e muscoli per pedalare; e noi possedevamo entrambi. L'età compresa tra i quindici e i vent'anni è stata infatti segnata, per molti di noi, da un'esuberanza sportiva che rasentava la frenesia. Era un bisogno, più che una scelta. Negli intervalli di tempo lasciati liberi dai libri e dalle passioni, occorreva trovar qualcosa per occupare il cuore e la mente. C'era chi sceglieva la politica.

Ma, probabilmente, non sapeva giocare a pallone.

L'elenco degli sport è lungo, e piacevolmente nevrotico: giocavamo a tutto, scendevamo dovunque, saltavamo qualsiasi cosa, calciavamo, colpivamo e lanciavamo ogni palla in circolazione. Tra le più leggere, e quelle colpite con maggiore determinazione, c'erano le palline da ping-pong. Avevamo messo un tavolo verde in cantina, e giocavamo per ore: i clienti del notaio Severgnini, al piano di sopra, udivano sotto di loro un ticchettio incessante, come se trattassero compravendite seduti sopra una bomba a orologeria. Dopo un paio d'anni di pratica continua, eravamo piuttosto bravi: sapevamo praticare top-spin — un effetto che aumenta la rotazione della pallina —

e balzavamo a destra e a sinistra senza schiantarci contro i muri. Fornivamo, credo, uno spettacolo singolare: la combinazione tra jeans attillati, magrezza ieratica e scatti nervosi doveva essere impressionante.

Anche il tennis ci piaceva. Alcuni di noi ne avevano appreso i fondamentali, anni prima, a Serramazzoni, una località dell'appennino modenese dove i corsi erano l'equivalente sportivo dei soggiorni sulla Manica: un'educazione social-sentimentale, dove la racchetta serviva soprattutto per misurare la distanza minima consentita nel ballo lento («distanza racchetta»). Tornati in pianura, il Tennis Club Crema ci consentiva di mostrare quello che avevamo appreso: i tre campi in terra rossa erano discreti, e le figlie di alcuni soci estremamente graziose. In ambedue le attività l'entusiasmo superava la tecnica, e questo ci rendeva impopolari. Gridavamo nelle docce, allagavamo gli spogliatoi, vestivamo in maniera non consentita, entravamo nei campi prima che fossero asciutti, irritando l'anziano custode, che imprecava come un personaggio dei Malavoglia.

La nostra indisciplinata euforia era tale che la dirigenza del Tennis Club — un luogo dove Crema parlava spesso in dialetto, ma sognava di essere inglese — aveva deciso di confinarci in alcuni orari: il mattino presto, e le ore più calde della giornata.



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