La campana di vetro by Sylvia Plath & Anastasia Stefurak

La campana di vetro by Sylvia Plath & Anastasia Stefurak

autore:Sylvia Plath & Anastasia Stefurak [Plath, Sylvia & Stefurak, Anastasia]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 2023-10-18T12:00:00+00:00


1. Rinomato college femminile di New York, situato nei pressi della Columbia University.

2. Cooperativa fondata a Cambridge da un gruppo di studenti che vendeva libri e altro a prezzi modici.

CAPITOLO XI

La sala d’aspetto del dottor Gordon era silenziosa e beige.

Erano beige i muri, beige i tappeti, beige le poltroncine e i divani. Non c’erano né specchi né quadri, soltanto, appesi qua e là, diplomi di varie scuole di perfezionamento, con il nome del dottor Gordon in latino. Felci dalle fronde lobate verde pallido e foglie appuntite di un verde molto più scuro riempivano i vasi di ceramica disposti sul tavolo in fondo alla stanza, sul tavolino davanti al divano e su quello con le riviste.

All’inizio mi chiesi come mai la stanza desse quell’impressione di sicurezza. Poi capii: non aveva finestre.

L’aria condizionata mi fece rabbrividire.

Indossavo ancora la camicetta bianca e la gonna arricciata di Betsy. Un po’ più flosce, adesso, perché nelle tre settimane dal mio ritorno non le avevo mai lavate. Il cotone impregnato di sudore emanava un odore acre ma amico.

Neanche i capelli mi ero lavata, in quelle tre settimane. E non dormivo da sette notti.

Mia madre diceva che dovevo pur avere dormito, era impossibile resistere senza dormire per tutto quel tempo, ma se avevo dormito, era stato a occhi spalancati, perché avevo seguito il verde luminoso delle lancette della sveglia sul comodino, secondi minuti e ore, in tutte le loro circonferenze e semicirconferenze ogni notte per sette notti senza saltare un secondo né un minuto né un’ora.

E non mi ero lavata i vestiti e i capelli perché mi sembrava una cosa assurda.

Vedevo i giorni dell’anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l’una dall’altra dall’ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita.

Mi sembrava assurdo stare a lavarmi, se poi mi toccava rifarlo di nuovo il giorno dopo.

Solo a pensarci, mi sentivo stanca.

Volevo fare le cose una volta per tutte e basta, chiuso.

Il dottor Gordon rigirò tra le dita una matita d’argento.

«Sua madre mi ha detto che lei è nervosa.»

Mi raggomitolai nella caverna della poltrona di pelle e guardai il dottore al di là della sterminata scrivania tirata a lucido.

Il dottor Gordon attese. Picchiettava con la matita – tap, tap, tap – sul perfetto prato verde del sottomano.

Le sue ciglia erano così lunghe e folte da sembrare finte: un canneto di plastica nera intorno a due laghetti verdi glaciali.

E i lineamenti troppo perfetti gli davano un’aria quasi effeminata.

Lo odiai nell’attimo stesso in cui varcai la soglia.

Mi ero immaginata un uomo gentile, brutto e intuitivo, che mi avrebbe accolta con un «Ah!» di incoraggiamento, come se vedesse qualcosa che a me sfuggiva, e allora io avrei trovato le parole per dirgli della paura che mi aveva preso, della sensazione di essere ricacciata sempre più in fondo a un sacco nero senz’aria e senza fine.

Lui



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