Puccini by Giuseppe Adami

Puccini by Giuseppe Adami

autore:Giuseppe Adami [Adami, Giuseppe]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788865763865
editore: il Saggiatore
pubblicato: 2014-08-26T22:00:00+00:00


12. Opera senza giro

Sul lago e nella macchia pisana filtravano i primi bagliori gelidi dell’alba quando Giacomo Puccini strappava al pianoforte quegli ultimi accordi cupi, lenti, tenuti che preparano il silenzio in cui cade la domanda angosciosa di Rodolfo agli amici: «Che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così?…». Poi l’urlo lacerante e disperato: «Mimì, Mimì, Mimì…». Ecco: la piccola fioraia, il capo reclinato dolcemente sul sospirato manicotto, è già nell’al di là. Addio, Mimì… Un singhiozzo serra la gola al Maestro, gli occhi gli si impregnano di lagrime. Il primo pianto per la sua creatura – quel pianto che più tardi dilagherà nel mondo – è il suo, com’era di Mimì il primo sole che baciava la rosa germogliante sul davanzale dell’abbaino squallido.

Giacomo quella sera aveva voluto restar solo. I pittori non vennero come sempre a raccogliersi intorno al tavolo dove fumava il ponce preparato dalla signora Elvira. Egli sentiva che nella notte avrebbe finito l’opera e voleva finirla in un’atmosfera di isolamento e poesia. Chiudere il capolavoro spremendo il cuore gonfio sulle ultime note, senza che nessuno lo sentisse e lo vedesse. Che, solitamente, mentre componeva, gli amici chiacchieravano e fumavano nello stesso stanzone e quel baccano non lo disturbava. Anzi spesso gli piaceva, mentre s’accompagnava la battuta al piano, sentire che dall’oscurità i pittori rispondevano: «Soli d’inverno è cosa da morire…» egli accennava. E gli altri, sommessamente in coro: «Ci lasceremo alla stagion dei fiori…».

Ora tutto finiva. Due anni di lavoro e di tormento, di discussioni aspre e di rifacimenti faticosi si concludevano con la morte di Mimì. A festeggiare il grande avvenimento Giacomo aveva convitato a banchetto gli amici. Oltre la colonia di Torre del Lago, i fedeli di Lucca si strinsero in quel pomeriggio di novembre del 1895 intorno al pianoforte per far l’intera conoscenza del vivo e commosso quartetto. Si rise, si pianse, si abbracciò il compositore preconizzando un successo memorabile, unico nella storia della lirica pucciniana.

Perché il pranzo fosse degno dell’avvenimento, Giacomo era andato a caccia nella tenuta dei Ginori alla Piaggetta, facendo larga strage di fagiani. Di fronte alla luculliana imbandigione un commensale, alzando come in offertorio il piatto ricolmo, per restare in colore di bohème esclamò: «Questa è un’aringa degna di Demostene, perché sa di fagiano…».

A che Puccini, mantenendosi in tono, rispose con le stesse parole del romanzo di Murger: «L’aringa è a torto disprezzata; tutto sta nella maniera di saperla cucinare».

Nel mese successivo, per Natale, un secondo banchetto festeggiava la fine sospirata di Bohème, questa volta in casa di Giuseppe Giacosa. Un colossale panettone troneggiava sulla mensa. Quel dolce, dopo tante amarezze, l’aveva mandato il signor Giulio. E all’indomani il poeta trasformava il panettone in un serto di lauro con questi versi di ringraziamento: «Mai così aulente foglia / ebbe il lauro che Roma / e Atene tributar concordi al merto / poetico e guerresco / quale dal tuo germoglia / o Divo Giulio, inzuccherato serto / posato sul guanciale di Teombra. / Serto gargantuesco / anzi pantagruelico che invoglia / a golose peccata / l’amichevol brigata / raccolta intorno al familiar mio desco.



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