Canfora Luciano - 2000 - Un mestiere pericoloso: la vita quotidiana dei filosofi greci by Canfora Luciano

Canfora Luciano - 2000 - Un mestiere pericoloso: la vita quotidiana dei filosofi greci by Canfora Luciano

autore:Canfora Luciano [Canfora Luciano]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
Tags: Philosophy, History & Surveys, Ancient & Classical
ISBN: 9788838915826
Google: x3xZAAAACAAJ
editore: Sellerio
pubblicato: 2000-11-14T22:00:00+00:00


braccia,

«di

smeraldi translucidi». Facciamo

grazia del resto: alla fine del

dramma, Lucrezio «si avvicinò

alla bella africana, che faceva

cuocere» - in un sussulto

attivistico contrastante con la

precedente assuefazione ai "letti

da riposo” - «una pozione su di

un braciere in una pentola di

metallo». (E si sa quanto siano

pericolosi i precipitati chimici

prodotti da alcuni metalli). A

furia di «fissare» la pozione, che

diveniva sempre più simile a

«un cielo torbido e verde»

(fenomeno raro in verità),

Lucrezio, nonostante i blandi

ammonimenti della donna, fu

indotto a bere il filtro. «E subito

la sua ragione scomparve, ed

egli dimenticò tutte le parole

greche del rotolo di papiro [di

Epicuro]. E per la prima volta,

divenuto

pazzo,

conobbe

l'amore e nella notte, poiché era

stato avvelenato, conobbe la

morte». Una specie di Tè nel

deserto, forse un po' più

sbrigativo.

Povero

San

Girolamo, di quali morbosità gli

è toccato di essere la fonte.

Inutile dire che il santo erudito

deve aver tratto quelle notizie

da

altre

fonti

precedenti.

Neanche tanto antiche, dal

momento

che

un

altro

battagliero padre della chiesa,

Lattanzio (morto intorno al 320

d.C.), che conosce e spesso

adopera,

a

fini

polemici,

Lucrezio, pur elencando, nel

quadro

della

sua

macabra

attività apologetica, i suicidi

degli scrittori pagani, compreso

quello di Democrito padre

dell'atomismo, ignora del tutto

un

qualunque

suicidio

di

Lucrezio. Si può essere portati a

pensare che tutta la leggenda

sia nata dalla lettura del poema:

da quello che Lucrezio aveva

scritto del (presunto) suicidio di

Democrito

(ili,

1040-1041:

«sentendo illanguidire nella sua

mente

i

movimenti

della

memoria,

si

presentò

spontaneamente alla morte») e

dalla

cupa

e

mortificante

descrizione

della

fisiologia

dell'amplesso

che

Lucrezio

squaderna alla fine del libro

quarto (10371191). Va da sé, per

passare ad un altro aspetto della

biografia

geronimiana,

che

l'idea, alquanto stravagante, che

Cicerone abbia fatto, morto

Lucrezio,

l'edizione

critica

(«emendavit») del poema, è

semplicemente una costruzione

- indegna di un biografo serio

ma concepibile nel IV secolo

quando

Simmaco

faceva

allestire

edizioni di Livio e di altri

classici - imbastita sulla base

della lettera di Cicerone al

fratello Quinto, contenente un

breve e controverso giudizio sui

«versi

di

Lucrezio».

Naturalmente è facile precisare

che nulla autorizza a pensare

che Lucrezio fosse già morto

quando Cicerone scriveva quella

troppo sollecitata frase: la frase

è del febbraio del 54 a.C. e

Lucrezio,

proprio

dalla

cronologia nota a Girolamo,

sarebbe

morto

non

prima

dell'anno 50. Insomma di quella

biografia non resta in piedi

nulla, se non il fatto che proprio

essa dimostra che, in assenza di

notizie sul poeta, ci si era

ridotti, come del resto lo siamo

anche noi, ad interrogare,

magari un po' disinvoltamente,

il poema.

La realistica descrizione delle

miniere di Skaptè Hy-le in

Tracia e l'espressione molto

diretta e quasi au-toptica che

adopera (vi, 806-810: «non vedi

quali fetori emana Skaptè

Hyle?») hanno fatto pensare,

forse a ragione, a un viaggio in

Grecia: una esperienza che i

colti romani, specie se portati

alla filosofia, quasi mai si

negavano. Per Lucrezio, che

termina il poema mettendo in

esametri latini alcuni capitoli di

Tucidide, potrebbe essere stato

anche

una

specie

di

"pellegrinaggio"

nei

luoghi

tucididei. Nulla di insolito,

dunque, né di particolarmente

illuminante sulla persona del

poeta. Ma c'è una serie di

luoghi, nel poema, che aiutano

invece a capire cosa pensava

Lucrezio fuori della stretta sua

attività

di

appassionato

divulgatore

della

fisica

atomistica. E sono i suoi

pensieri

politici,

o

meglio

riferiti alla realtà politica, che

palesemente scaturiscono dalla

sua lunga esperienza della

realtà politica e sociale romana.

Come per un altro grande

traduttore

romano,

il

commediografo Plauto, si è

potuto scrivere un Plautìnìsches

ìm Plautus (Elementi plautini in

Plauto), così l'analogo potrebbe

farsi per Lucrezio mirando

appunto al suo pensiero, o

meglio

alla

sua

reattività

politica, che non può avere

rapporto con il trattato di

Epicuro Sulla natura.

Un testo capitale è il secondo

proemio.

Quel

proemio

radicalmente,

provocatoriamente,

antitetico

all'esaltazione

romana

dell'eroismo guerresco: dove si

esalta lo stare a guardare le

altrui guerre, «senza partecipare

ai pericoli». Metafora della

serenità conseguita, con la

filosofia, dal saggio, che resta

esente dai turbamenti delle

passioni indotte dai pregiudizi

appunto

come

l'osservatore

sereno della tempesta o della

battaglia ne rimane indenne.

Ma è lo svolgimento ulteriore

del

proemio

che

colpisce:

«niente vi è di più dolce che

occupare le alte fortezze della

scienza: regioni serene dalle

quali, abbassando lo sguardo,

puoi vedere gli altri uomini

errare da



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