Che ci faccio qui? by Bruce Chatwin

Che ci faccio qui? by Bruce Chatwin

autore:Bruce Chatwin
La lingua: ita
Format: epub
editore: Adelphi
pubblicato: 2014-05-21T04:00:00+00:00


All’alba arrivammo a Volgograd. Un tempo nota come Stalingrado, è una città di stucco e marmo dove gli ex combattenti sovietici si fotografano tra loro, in continuazione, davanti ai monumenti che ricordano la seconda guerra mondiale. Ricostruita nello stile «terza Roma» degli anni Quaranta e Cinquanta, sorge a terrazze lungo la sponda europea del Volga; e guardando nella direzione opposta dall’alto dell’imponente scalinata che scende verso il porto si può vedere, al di là di due propilei dorici, al di là di un altro tempio dorico che funge da gelateria, oltre alcune isole sabbiose, una desolata landa asiatica, coperta di arbusti, che promette, più avanti, deserti e deserti.

Alle dieci, al suono di una musica che metteva addosso i brividi, noi passeggeri della Maksim Gor’kij ci radunammo nel piazzale degli Eroi Caduti. Adesso eravamo una delegazione di penitenti tedeschi, venuta ad aggiungere un cesto di gladioli e garofani ai mucchi di fiori rossi già accatastati quel mattino attorno alla Fiamma Eterna. Su un lato dell’obelisco di granito rosso si riflettevano gli alberi di Natale del parco e la facciata dell’Hotel Intourist, costruito nel punto in cui il feldmaresciallo Paulus aveva il suo bunker. Una squadra di cadetti si fece avanti a passo cadenzato, i ragazzi in cachi, le ragazze in bianchi sandali di plastica, con candidi pompon di tulle dietro le orecchie. Tutti si misero sull’attenti. Il commerciante di rum e l’insegnante, tutt’e due superstiti della battaglia, provvidero alla parte cerimoniale. Avevano le guance rigate di lacrime; e le vedove di guerra che per tanti giorni si erano preparate ad affrontare la grande prova tenevano le dita serrate intorno alle borsette, soffiavano nei fazzoletti o semplicemente stavano a guardare con un’aria smarrita e miserevole.

All’improvviso ci fu un piccolo parapiglia. Dietro di noi c’era un gruppo di ex soldati della 62a Armata sovietica, venuti dalle repubbliche asiatiche. La loro guida stava commentando una foto della resa di Paulus; ed essi, sentendo parlare in tedesco lì vicino, vedendo il «nemico» che calpestava distrattamente l’orlo di un’aiuola erbosa, e ritenendo che quello fosse quasi un sacrilegio, cominciarono a mormorare tra loro. Poi un uomo con una faccia taurina si fece largo e disse ai tedeschi di sgomberare. Le signore, con un’aria più miserevole che mai, si spostarono in fretta ritirandosi sul vialetto di cemento. «Molto interessante» disse Von F mentre mi superava a grandi passi dirigendosi verso il pullman.

Alla fine della guerra qualcuno aveva proposto di lasciare le rovine di Stalingrado così com’erano – un monumento perenne alla disfatta del fascismo. Ma Stalin non gradì l’idea che la «sua» città dovesse rimanere un cumulo di macerie e ordinò che venisse ricostruita com’era prima, e ancora meglio. Lasciò intatta una rovina: una fabbrica distrutta dalle bombe sul pendio che digrada verso il fiume. Oggi, isolata in mezzo a un enorme spiazzo di cemento, la fabbrica si trova tra una baionetta alta circa sessanta metri e ancora circondata dalle impalcature, e una struttura di forma e dimensioni simili a quelle di una torre di raffreddamento, dove i visitatori possono ammirare (previo appuntamento) un plastico della battaglia.



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