Come sfasciare un paese in sette mosse by Ece Temelkuran

Come sfasciare un paese in sette mosse by Ece Temelkuran

autore:Ece Temelkuran [Temelkuran, Ece]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri
pubblicato: 2019-04-09T22:00:00+00:00


5. Progetta i tuoi cittadini e le tue cittadine ideali

Lei non sta piangendo, e io non le sto tenendo la mano; non è così che le donne toste entrano in clinica per abortire. Ho con me un dolce al cioccolato, l’unico suo desiderio per «dopo». Ci sono state abbastanza lacrime ieri sera, comunque, quando mi ha detto: «Posso fare tutto da sola. Ho fatto tutto da sola in questo fottuto paese. Ma non questo. Non posso includere un figlio nella mia guerra contro la misoginia». Verso le undici e mezza si è calmata, decisa a mettere da parte la merda emotiva fino al suo prossimo appuntamento con l’analista.

Dunque eccoci qui in clinica, con i nostri occhiali da sole giganti sembriamo due rockstar che hanno fatto baldoria tutta la notte. Lei si sta infilando il camice usa e getta, con penosi tentativi di scherzare sulle bambole di carta ritagliata che facevamo da piccole. Le squilla il telefono. È suo padre. Lo mette in modalità silenziosa e me lo passa. Continua a vibrare mentre aspettiamo il dottore. E continua ancora. «La vita non smetterà di rompere nemmeno qui, eh?» mormora lei, e afferra il telefono. «Sì, papà? È urgente? Sono in... riunione...» Mentre parla i suoi occhi si gonfiano, come la ripresa accelerata di un garofano che sboccia. Dopo aver attaccato, lancia un urlo: «Infermieeeraaa!» Due infermiere compaiono sulla porta. Lei, con una mano sul fianco, l’altra che gesticola nell’aria, la classica posa di una donna turca su tutte le furie, grida: «Chi è che ha chiamato mio padre? Chi ha detto a mio padre di questa cazzo di gravidanza? Rispondetemi, subito!» L’infermiera più vecchia, evidentemente la più ragionevole delle due, bisbiglia «Merda! L’hanno fatto di nuovo».

Siamo tutte e tre accanto al letto, l’infermiera le tiene una mano, io le tengo l’altra. Adesso è la ripresa al rallentatore di un garofano che appassisce. L’infermiera ci spiega, con il dovuto inframmezzare di imprecazioni: «Appena il tuo test risulta positivo in laboratorio, lo registrano. Prima chiamano te. Se non ti trovano, chiamano tuo marito e gli dicono della gravidanza, e se non sei sposata chiamano tuo padre, non importa quanti anni hai. Lo definiscono “monitoraggio della salute in gravidanza”. Però, ovviamente, lo fanno per prevenire l’aborto, in caso tu stia pianificando di farlo, voglio dire, dio ce ne scampi, di farlo da sola! È così da un po’ ormai. E anche le cliniche private sono obbligate a riferire tutti gli aborti allo Stato. Se sei sposata, hai bisogno anche dell’approvazione scritta di tuo marito. Altrimenti la clinica paga una grossa multa. I bastardi fanno di tutto per metterti le mani in mezzo alle gambe!»

Ci avviamo tutte insieme verso la sala operatoria, in segno di solidarietà. Sulla porta affido a una dottoressa la mia amica, che adesso piange apertamente. La dottoressa la abbraccia.

Due ore più tardi, nella corsia dell’ospedale, mangiamo insieme il dolce, in silenzio. La mia amica si sistema in continuazione il camice di carta. È il 2014, e sembriamo l’ultima scena di un documentario lunghissimo intitolato: Come creare la cittadina ideale per la tua dittatura.



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