Creature selvagge by Jack Halberstam

Creature selvagge by Jack Halberstam

autore:Jack Halberstam [Halberstam, Jack]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Minimumfax


Fierce

Ci sono persone che vogliono gestire le cose, e ci sono cose che vogliono scappare. Se te lo chiedono, digli che stavamo volando.

Stefano Harney e Fred Moten, Undercommons

La posta in gioco di queste argomentazioni a favore di un sistema di conoscenza organizzato intorno al selvaggio, piuttosto che intorno alla segretezza, è poter disporre di vocabolari più ampi per esprimere desiderio e senso di appartenenza. Prestare attenzione al selvaggio infatti ci abitua a una lingua della materialità del corpo, del senso di appartenenza e del sesso più complessa rispetto a quella che le impostazioni liberali, progressiste o persino queer ci mettono a disposizione. È questo lessico complesso che ho voluto mettere in evidenza: l’ho fatto per prima cosa attraverso il recupero di quella che, nella vita di T.H. White, è in realtà una ricca varietà di attaccamenti su cui però altri e altre hanno sorvolato con troppa fretta, volendo insistere sulla sua presunta omo-solitudine. Ho poi rintracciato questo vocabolario in tutta una serie di altri scrittori che, come White, hanno proiettato sui rapaci un profondo desiderio per una relazionalità oltre l’umano, o per lo meno oltre la norma. Ma ci può essere anche un terzo modo, e una terza motivazione molto più legata alla stratificazione sociale, per pensare il selvaggio come una epistemologia della sessualità: se lo concepiamo in questo modo infatti il selvaggio ci può dare accesso a un insieme alternativo di economie erotiche e di pratiche culturali associabili non solo a figure di uomini bianchi solitari, ma anche alle sottoculture delle vite queer nere. In questa sezione, quindi, voglio soffermarmi su quella molteplicità non codificata di relazioni per le quali gli artisti queer neri usano il termine fierce, riferendosi direttamente al significato della parola, «feroce».

Negli ultimi decenni, l’epistemologia del closet è stata più volte messa in questione, spesso da analisi che ricadono nel campo della critica queer-of-color. I contributi della teoria queer postcoloniale, come quello di Gayatri Gopinath,94 hanno messo in dubbio l’universalità del binarismo omo/etero, e ci hanno mostrato come spesso nei contesti non euro-americani la vita queer si svolge accanto al matrimonio e all’eterosessualità, e non escludendoli del tutto. Negli studi queer neri, come abbiamo visto nel primo capitolo, C. Riley Snorton sostiene che il closet, se considerato in relazione alla vita nera, non può essere visto semplicemente come una metafora della segretezza: è diventato invece un modo per dipingere i neri, e gli uomini gay neri in particolare, come infidi, e inaffidabili nella loro pratica sessuale. In effetti, la sessualità gay nera, almeno a partire dall’inizio del ventesimo secolo è stata troppo spesso rappresentata come illeggibile, inconoscibile, come qualcosa di cui sospettare. Il poeta e scrittore Langston Hughes è il perfetto esempio di questa illeggibilità. Anche se il concetto di «down low» rappresenta la vita queer nera come sotterfugio, l’illeggibilità della sessualità nera non è riducibile nei termini dell’inganno e del rifiuto di sé: al contrario, figure come Langston Hughes o Claude McKay, Chester Himes o Gladys Bentley, occupano un territorio inesplorato, un terreno di fuga, stravagante e selvaggio allo stesso tempo.



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