Datome, Luigi by gioco come sono

Datome, Luigi by gioco come sono

autore:gioco come sono
Format: epub
ISBN: 9788858697856


Itaca

Un portachiavi africano

Avete mai sentito parlare di avorio vegetale?

Nemmeno io. Almeno fino a quando, all’età di quindici anni, zia Marisa, una delle sorelle di mia mamma Antonella, mi regalò un portachiavi.

Era scolpito nel seme del frutto di una pianta, la Hyphaene Thebaica, più comunemente conosciuta come Palma Dum, originaria dell’Africa orientale.

Cosa c’entro io con l’Africa orientale? C’entro eccome, o più precisamente c’entra il cinquanta per cento del mio patrimonio genetico. Mia madre, prima di tornare a Montebelluna dove sia io che Tullio siamo venuti al mondo, è nata e vissuta per anni in Etiopia, come le sue due generazioni precedenti.

Il mio bisnonno Battista Toti e suo fratello Angelo emigrarono nel continente africano negli anni Venti perché trovarono lavoro a Cheren, in Eritrea, come tecnici nel bottonificio De Rossi dove si usava il gheriglio della noce, duro appunto come l’avorio.

Il portachiavi aveva una forma ovale e assomigliava a una grande fetta di kiwi verde e marrone. All’apparenza era un oggetto di poco conto, nemmeno particolarmente bello. E lì per lì, quando lo ricevetti – non me ne voglia zia – non gli attribuii quel valore simbolico che meritava.

“Che me ne faccio di questo pezzo di legno?” pensai. Ma ero solo un ragazzino di quindici anni, badavo al sodo, vedevo che l’estetica non era di grandissimo livello e non pensavo certo di utilizzarlo per le chiavi del mio motorino. Ringraziai zia e lo misi in un cassetto della cameretta, quasi certo di averlo riposto per sempre, come quei regali che sai già che rimarranno inutilizzati. E per un po’ me lo dimenticai.

Era il periodo in cui la vita iniziava a chiedermi davvero cosa volevo fare da grande. Ero un ragazzino promettente, mi sballavo a giocare a pallacanestro e cominciavo a notare che ero il più bravino del gruppo… ma non mi facevo molte domande, un po’ per un eccesso di sicurezza, un po’ per incoscienza.

Volevo solo giocare a basket ed emulare i più grandi. Ma non i grandi della NBA o della Nazionale. Sognavo semplicemente di diventare uno tra i migliori cestisti della Santa Croce in Serie B. Mi allenavo con loro e vedevo che erano giocatori tosti, adulti soprattutto, da cui prendere esempio. Volevo essere alla loro altezza e competere con loro. Niente di più.

Quando mamma mi chiedeva: «Allora hai deciso cosa vuoi fare da grande?» rispondevo con il sorriso sulle labbra e l’aria di chi voleva sfidare il mondo: «Il giocatore di basket, te lo dico sempre!».

Proprio a quindici anni, però, il destino decise di mettermi di fronte a una scelta obbligata. Arrivò la chiamata da Siena e con essa il momento di crescere. Di diventare grande, di diventare uomo… nel giro di una telefonata.

Siena, allora, era la squadra più pronta e attrezzata a livello giovanile; erano quelli che facevano sul serio, avevano alle spalle un finanziatore importante come la Banca Monte dei Paschi e si stavano preparando a dominare in lungo e in largo. E io sarei stato aggregato alla Serie A con un roster che puntava al titolo.

Un salto triplo rispetto alla B2 di Olbia.



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