Fra i boschi e l'acqua by Patrick Leigh Fermor

Fra i boschi e l'acqua by Patrick Leigh Fermor

autore:Patrick Leigh Fermor [Leigh Fermor, Patrick]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Adelphi


«Herrgott!» esclamò tutto a un tratto István – parecchio tempo dopo, e a pochi metri di distanza dalla curva del covone – battendosi la fronte con la mano. «Dio santo! Il vescovo! La Gräfin! Li abbiamo invitati a cena, e guarda dov’è già il sole!».

Era molto basso nel cielo, stava calando la sera. I covoni e i pioppi e le file serrate di mannelli e mucchi di fieno disegnavano sbarre d’ombra sopra il campo falciato e uno stormo di uccelli stava tornando ai nidi nel bosco. I capelli intrecciati di fili di fieno formavano un comico contrasto con la sua espressione costernata, e scoppiammo tutti a ridere. Aiutammo Safta e Ileana a rimettersi in ordine, sfilando ciuffi di fieno e tenaci spighe di orzo dalle loro trecce scompigliate per la mischia e scendemmo al fiume tutti insieme, tenendoci per mano, István e io camminando in punta di piedi. «Poveri piedi» ci compativano loro. Esauriti gli addii, ci tuffammo nel fiume e iniziammo la lunga nuotata di ritorno, voltandoci di continuo a salutare e chiamare quelle ragazze formidabili, che ricambiarono finché non fummo fuori portata di orecchio e anche, dopo un’ansa del fiume, fuori dalla loro vista.

La corrente era più forte del previsto. Vicino a riva, dove l’acqua correva più pigra, le canne e il crescione e le lenticchie d’acqua impicciavano i movimenti, sicché non c’era modo di evitare che il nostro ritmo fosse assai più lento di quello esuberante dell’andata. Le rondini sfrecciavano radenti sotto le fronde; un pastore e alcuni braccianti di ritorno dalla mietitura ci guardarono stupefatti. Dopo la lunga fatica, confidando nel buio della sera, uscimmo fuori e corremmo nell’oscurità che si addensava fino alla radura, dove per fortuna tutto era come l’avevamo lasciato. Infilati i vestiti e balzati in sella, percorremmo al piccolo galoppo le tre miglia fino a casa, dapprima costeggiando le luci del villaggio, quindi tuffandoci nuovamente nei boschi, a testa china sotto i rami bassi, e poi facendo a gara nell’ultimo mezzo miglio, finché non arrivammo rumorosamente sul ponte e sotto l’arco d’ingresso e non smontammo da cavallo nella corte, con il cuore che martellava e un gran fuggi fuggi di piccioni. Ci lavammo, cambiammo e spazzolammo i capelli a velocità fulminea, e di lì a poco salivamo la scala che portava alla loggia.

La tavola era apparecchiata a una estremità, e gli ospiti, seduti o in piedi, bicchiere in mano, aspettavano compostamente all’altra. La Gräfin dai corti capelli grigio ferro teneva le dita sottili e inanellate intrecciate in grembo e la fascia viola del vescovo mandava riflessi sotto la luce delle lampade.

«Ah, bene, eccovi» disse la madre di István. Alla fine, non eravamo affatto in ritardo; István baciò la mano alla Gräfin con la consueta disinvolta eleganza, e poi l’anello al vescovo. A tavola, non riuscii a concentrarmi sulla conversazione: ero ancora immerso nell’atmosfera sognante del pomeriggio, i piedi mi dolevano per le punture delle stoppie e mi veniva difficile cancellare dalla faccia un sorriso di segreta beatitudine. La Gräfin spiegò il tovagliolo scuotendolo con un balenio di zaffiri.



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