I diavoli di Bartali by Marco Pastonesi

I diavoli di Bartali by Marco Pastonesi

autore:Marco Pastonesi [Pastonesi, Marco]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Marco Pastonesi; I diavoli di Bartali; Gino Bartali; Ginettaccio; ciclismo; giro d'Italia; Tour de France; gregari; bicicletta; Ediciclo
editore: Ediciclo
pubblicato: 2019-06-16T22:00:00+00:00


Renato Giusti

Mi avvicinai, lo guardai, lo toccai, come si fa con i santi, poi lo salutai.

Giro d’Italia del 1954. Il 6 giugno: tappa a cronometro Gardone Riviera-Riva del Garda, 42 km per i corridori, 220 per me, tra andare e tornare a casa. Avevo quindici anni, gareggiavo da esordiente, stravedevo per Bartali. Alloggiava in un albergo vicino al Vittoriale. Quando lo trovai, stava sistemando la bicicletta. Mi avvicinai, lo guardai, lo toccai, proprio come si fa con i santi, poi lo salutai. Fu gentile. Ne rimasi incantato, forse sedotto. Bartali, anche se aveva quasi quarant’anni, al suo ultimo anno da professionista, era il massimo. Il massimo come Coppi. Il massimo come il Grande Torino.

Amavo la bici e il ciclismo, amavo Bartali e Coppi. Alla seconda corsa la prima vittoria, per distacco. Alla terza, il campionato italiano, arrivai quarto. Nessuno mi aveva insegnato niente, ma mi arrangiavo. Da allievo andavo forte: cinque vittorie il primo anno, dodici il secondo. Andavo forte anche da dilettante: cinque vittorie il primo anno, dieci il secondo, dodici il terzo, senza finire l’anno perché ero già passato professionista con la Torpado al Giro di Toscana del 1959, senza neanche aspettare l’Olimpiade di Roma. È che già nel 1958 avevo capito il clima: primo in due indicative, secondo al campionato italiano, più altre due volte secondo ma solo per coprire la schiena al vincitore, fui lasciato fuori dal c.t. Proietti.

Bartali, dunque. Lo rividi nel 1958, proprio in quelle indicative per la maglia azzurra. Credo di essergli piaciuto: ero il tipo che non aveva paura di niente e nessuno. Tant’è che nel 1963, quando la Torpado lasciò le corse, Bartali m’ingaggiò nella San Pellegrino, dove faceva il direttore tecnico, o generale. Era una squadra con tanti padroni. A metà stagione, quando la San Pellegrino decise di tirarsi fuori, la squadra divenne Firte. Ma intanto il laboratorio di maglieria che avevo fondato nel 1960 andava sempre meglio, da quattro uomini si era passati a cinquanta, io facevo il factotum, mi occupavo di tutto, ma non potei più occuparmi di ciclismo.

Con Bartali, ormai, c’era amicizia. E quando seppi che era stato scaricato dalla Sprite come uomo-immagine, attraverso Lino Ciocchetta, che era il suo autista, gli domandai se volesse mettere il cappellino con la scritta del mio maglificio. Affare fatto. Gino, sulla sua Golf, e con il mio cappellino Club 88 Antonella. A firmare autografi, a regalare cartoline, a posare per foto-ricordo. Con stipendio. Se mi avesse chiesto di più, glielo avrei dato. Io, a Bartali, non avrei mai saputo dire di no.

Era unico. Quando si vedeva un assembramento, sicuri che, in mezzo, c’era lui, come un capopopolo. Quando si vedeva una fila indiana, sicuri che, davanti, c’era lui, come il pifferaio magico. E quando si vedeva la gente allontanarsi da Moser e Saronni, sicuri che, a distrarla, c’era lui, come un Garibaldi. Onesto, positivo, ottimista. Sempre contento. In una sola parola: inarrivabile. Si fermava sulla strada per stare con la gente. Non si negava mai. Una volta tre ragazzi gli



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