Il Ciclope by Paolo Rumiz

Il Ciclope by Paolo Rumiz

autore:Paolo Rumiz [Rumiz, Paolo]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: c54812442bae01fc5a7d34155f4bcfc65a839fc6
editore: Feltrinelli Editore
pubblicato: 2015-11-18T05:00:00+00:00


Concepì questi martellanti ottonari in lunghe, febbrili notti insonni nell’isolamento di Pelagosa, dove i faristi ancora lo ricordano.

Dove può fiorire una lingua franca se non su un’isola, che è il paradigma del territorio franco? Si dice che nella solitaria Lampedusa, devastata da ripetute invasioni e sempre testardamente ricolonizzata, anche in tempo di guerra i legni turcheschi e quelli cristiani potessero sostare senza aggredirsi, per un tacito accordo. Massimo Carlotto narra di una grotta dedicata alla Madonna, dove era stato sepolto un marabutto turco e dove i visitatori delle due religioni lasciavano senza disturbarsi cibo per i naufraghi, gli schiavi in fuga dalle galere o i pescatori giunti a reti vuote.

Mi chiedo se l’ampio uso dell’inglese (ma se la lingua egemone fosse il francese sarebbe lo stesso) non abbia ucciso questa capacità mediterranea di imbastardire e amalgamare, di costruire luoghi e parlate d’incontro, e non abbia finito per creare incomprensione anziché intesa. Se sei in Grecia e non sai che “alici” si dice “gavros”, non ordinarle nemmeno. Non le gusteresti. Sei vuoi un “saganàki”, che vuol dire formaggio fritto, non dire “fried cheese” e, ti scongiuro, le “dolmades”, non ridurle a “minced meat with rice”, perché pare tratto da un manuale nutrizionista per animali. “Food” è “nutrimento”, non “cibo”; è la banalizzazione della convivialità, lo scatolame sugli scaffali di un ipermercato, la solitudine dell’atto di mangiare. Impara a masticare i cibi a partire dal nome: di’ “melitzanes”, non “eggplants”. “Garlic sauce”, per Dio, è “skordalià”. Usa piuttosto l’italiano, che anche ci somiglia.

Ricordo che anni fa, in una taverna dei Quartieri spagnoli di Napoli, un cuoco mi declamò il menu usando i nomi locali dei cibi con una teatralità così barocca da saziarmi di sole parole. Gli stessi ingredienti si nobilitavano. “Puparoli”, “cucuzzielli”, “pummarole” e “mulignane” parvero, mescolati insieme, formula battesimale, benvenuto, per non dire esorcismo di una fame atavica. A un certo punto, ridendo, dovetti dirgli “basta”, se voleva lasciarmi un po’ di spazio nella pancia. Spesso, nei ristoranti stranieri, mi capita di scegliere i piatti dal nome, anche se non ho la minima idea degli ingredienti. So soltanto che se suonano bene hanno anche da essere buoni. È una scelta d’istinto dove sbaglio raramente. Sulla mia Isola l’inglese non c’entra. Mi aiuta a comunicare, ma non a incontrare. Mi lascia inchiodato in una terra di nessuno. Mi secca usarlo, così come mi secca usare il tedesco, che pure è la mia lingua della Mitteleuropa. Meglio sarebbe arrangiarsi col greco, l’arabo, il turco, il croato, o il veneto della Serenissima, che non è ancora morto nonostante il Leone non garrisca più sui vessilli in armi di san Marco. I comandi “cazza” e “lasca” mi hanno fulminato in posti lontanissimi tra loro, come l’Isola di Kos e il porto dell’antica Cartagine, a un passo da Tunisi.

Ego adriaticus sum. Come triestino, appartengo a Venezia e Cattaro, Ancona e Spalato, Curzola e Bari. E in quanto tale sono anche la quintessenza del Mediterraneo perché il mio mare è quello “dove l’Altro è più vicino”,



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