La pantera delle nevi by Sylvain Tesson

La pantera delle nevi by Sylvain Tesson

autore:Sylvain Tesson [Tesson, Sylvain]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Sellerio Editore
pubblicato: 2021-01-04T23:00:00+00:00


Un gatto in gola

Passò Zadoi e la pista traversò una gola a 4.600 metri di quota. Eravamo all’ovile di Bapo, riva sinistra del Mekong, a cinquecento metri dall’argine. Più tardi avremmo chiamato quel posto «il canyon delle pantere». Tre baracche di terra cruda, grandi come capannoni da spiaggia, segnavano l’ingresso di un passaggio scavato nel terreno carsico. Le creste bianche chiazzate da licheni color vinaccia culminavano a più di 5.000 metri e si aprivano su enormi declivi dove pascolavano le greggi. Un rivolo d’acqua gelida filtrava tra le pareti rocciose e disegnava tre meandri prima di gettarsi nel fiume. Occorrevano venti minuti di cammino per raggiungere il greto dove gli yak domestici andavano ogni mattina, sperando di trovare un pascolo più ricco di quello del giorno prima.

Non c’era acqua corrente, non c’era elettricità né riscaldamento. Il vento portava lontano i muggiti. I cani montavano la guardia. La pista correva sotto la scarpata, parallela al fiume, e qualche volta ci portava una visita. La jeep dell’allevatore di yak rappresentava la speranza di compiere un’incursione nel mondo moderno, cinquanta chilometri più a est.

La famiglia dei nomadi passava l’inverno in quel luogo, dove di notte la temperatura scendeva a venti gradi sotto zero, sorvegliando i suoi duecento yak e aspettando che i venti si calmassero col ritorno della primavera. Per la pantera le falesie erano un paradiso. Le cavità offrivano dei nascondigli, gli yak e i bharal blu del cibo. Gli uomini non facevano brutti scherzi. Noi quattro saremmo rimasti per dieci giorni.

I tre bambini erano magri come frustini. La vivacità li proteggeva dalle temperature negative. Gompa, di sei anni, e le due sorelle più grandi, Jisso e Djia dagli occhi a mandorla e dai denti bianchi, all’alba portavano gli animali al pascolo e la sera li riconducevano all’ovile. Passavano le giornate a correre sulla montagna, nel vento, guidando degli animali sei volte più grandi di loro. In dieci anni di vita, avevano visto la pantera almeno una volta. In tibetano pantera delle nevi si dice Saâ, e loro gridavano quella parola a squarciagola, come un’esclamazione, facendo grandi smorfie e mettendosi gli indici davanti alla bocca per simulare le zanne. Non erano il genere di bambini che si fanno addormentare con le favole di Perrault. Il padre ci aveva detto che ogni tanto, in una valle dell’alto Mekong, la pantera ne portava via uno.

Tougê, il capofamiglia cinquantenne, ci assegnò la baracca più piccola, che offriva anche un discreto lusso: la porta si apriva sulle falesie dove si aggiravano gli animali. I cani ci avevano adottato. Una stufa riscaldava la stanza. Davanti al campo, l’acqua del fiume scorreva un’ora al giorno, quando il sole era più caldo. Ogni tanto i bambini venivano a farci visita. Ore di freddo, di silenzio e di solitudine, paesaggio immutabile, cielo di pietra, ordine minerale e temperature negative: giorni destinati alla stabilità. Sapevamo quel che ci aspettava.

Il nostro tempo fu distribuito equamente tra le marce forzate e le ore di ibernazione.

La sera facevamo una visita alla famiglia nella baracca vicina.



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