La peste nuova by Fulvio Abbate

La peste nuova by Fulvio Abbate

autore:Fulvio Abbate [Sconosciuto]
La lingua: ita
Format: epub
editore: La nave di Teseo
pubblicato: 2020-04-15T22:00:00+00:00


IV

Sia pure in tempi non strettissimi, nonostante gli impedimenti, la barzelletta è stata concepita.

Dal balcone scorgevo ora un gruppo di militari, i chepì azzurri sul capo, che sfilavano, una retta puntinata in marcia verso il presidio. Sembrava volessero dire alla popolazione: siamo venuti a mettere ordine nella salvezza.

Quanto alle parole del prefetto che faceva appello all’inquietudine generale, personalmente pensavo: lo stupido parla in questo modo perché ignora i risultati brillanti del mio lavoro.

Se le barzellette abbozzate dall’anestesista erano farmaci sperimentali, da somministrare per semplice prova sulle cavie, i ratti; la mia, appena inventata, conteneva, ne ero certo, il vaccino definitivo. Ce l’avevo fatta in solitaria, lontano da Valeria e perfino da Zama.

Avviene d’altronde sempre così, quando sembra ormai tutto inutile, il crollo pare travolgere le fondamenta, ecco invece la cima di una fune e, lassù in alto, un elicottero giunto per te, il volo e infine il luogo sicuro e le mani del soccorso che rassicurano, quasi ti accarezzano; come fossero le mani delle ragazze.

In realtà, con la mia storia salvavo certamente la città, a prezzo però della sua squadra di calcio.

Poco grave nel tempo in cui lo stadio era adibito ad area di isolamento e quarantena, lazzaretto.

C’è l’icona della torre sbilenca che frana, anzi, dicono i versi di un poeta, “la torre abolita”, nel gagliardetto della squadra, il medesimo stemma della cittadina dove era nata Enza.

Sarebbe invece più comprensibile se, in luogo di questa, la torre, si mostrasse un topo rampante in maestà, rivolto frontalmente, che sgrana gli occhi, un ratto munito di ali che porti il terrore, pronto a mutare, come il batterio, in pipistrello. Verde e marrone, i colori sociali della maglia.

Non c’era da offendersi mettendo giù con disappunto le sciarpe. Pronunciavo l’unica verità possibile in quei giorni. Non era il caso di ricorrere all’orgoglio chiamando in causa le vecchie glorie. Queste ultime erano ormai simili ai trascorsi cow-boy di Hollywood, malfermi sulle gambe, leggende del vecchio West, ripescati per commedie di genere, volti come Robert Ryan, attore liberal, lo stesso che negli anni Cinquanta si oppose al maccartismo, sostenendo le organizzazioni che si battevano contro la caccia alle streghe che metteva fuori dagli studios gli attori e gli sceneggiatori accusati d’essere “spie comuniste”. Bizzarro che sullo schermo Ryan abbia quasi sempre impersonato personaggi in contrasto con le sue convinzioni. A un certo punto aveva sentito perfino la necessità di incontrare i media della comunità afro-americana dichiarandosi “un attore che interpreta un tipo di personaggi che nella vita reale trova totalmente disprezzabili”.

La verità, sia detto: quella squadra era a tutti gli effetti un sentimento interiore, un ratto moribondo che squittisce e si dimena annegando nelle fogne.

In questo senso, si poteva comprendere l’accoramento del tifoso verde-marrone: paziente, simile all’uomo che attende dall’inizio della storia un risarcimento: giungerà solo quando il disamore per se stessi avrà definitivamente vinto ogni resistenza.

Dunque, uno stato d’animo che poteva nutrire l’insicuro, il deluso senza riscatto; non era neanche possibile lasciarsi ingannare dai successi momentanei: seppure la squadra avesse vinto una coppa, ugualmente l’interiorizzazione del suo destino non sarebbe stata differente.



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