La regina di Kabul by Vauro Senesi

La regina di Kabul by Vauro Senesi

autore:Vauro Senesi [Vauro Senesi]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Pienogiorno
pubblicato: 2021-11-14T23:00:00+00:00


7. Non sorriderò mai più

I fiori. C’erano fiori in tutto il giardino, e anche la bouganville era fiorita. Fiori rossi che si stagliavano sul bianco immacolato del muro dell’ospedale. Le ultime tracce di neve sporca si erano dissolte da tempo nel sole, mentre l’estate già s’incamminava incontro all’autunno. Nel cortile dell’ospedale il dottore stava alzando una mano verso il capo, ma non per sistemare la solita ciocca ribelle. Questa volta le dita aperte tra i capelli detergevano sudore e stanchezza. Insieme ai fiori la bella stagione aveva portato con sé la guerra. Gli scontri sul fronte del Nord si erano intensificati in quei mesi, così come i bombardamenti di razzi sui villaggi. Il terreno sgombro dalla neve facilitava il cammino, e non c’era cammino lungo il quale i sassi non si mescolassero alle mine.

Il dottore fissava la bouganville cercando riposo per i propri occhi. A tratti, folate di vento ne ghermivano i petali, sollevandoli in aria. Sospesi, dispiegavano ognuno la propria danza prima di toccare il suolo. Farfalle. “Sembrano farfalle rosse”, pensò.

Si voltò nel sentire rumore di passi. Anche Marco, l’altro chirurgo, era uscito a prendere aria. L’ospedale era in piena attività. I padiglioni ribollivano di medici, chirurghi, infermieri, infermiere, inservienti, afgani e di molte altre nazionalità. E soprattutto di feriti. Feriti in ogni reparto, in ogni letto. Ne arrivavano ogni giorno dal fronte, dai villaggi e dalla città.

«Ehi». Marco salutò il dottore con un cenno del capo. Nel gesto appena abbozzato, il dottore riconobbe la sua stessa stanchezza. «Ehi», gli rispose. Chiazze, chiazze rosse. Per un istante il dottore pensò che le farfalle fossero andate a posarsi anche sul camice del collega. Ma erano rosse di sangue, quelle. Lo stesso sangue che chiazzava il suo. Non sapeva dire quanto tempo avesse trascorso in sala operatoria, senza sosta, perché da tempo le ore aveva smesso di contarle. «Allora?», chiese il dottore. Marco scosse la testa, rasata a zero. «Non c’è stato modo?», insistette il dottore. Marco lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «No, non c’è stato modo… ma... almeno sopravviverà».

Piccoli. Talmente piccoli da poter essere contenuti tra il pollice e l’indice della mano di un bambino. Due parti piatte come ali ai lati di un cilindretto. Di plastica verde. Per questo li chiamavano pappagalli verdi. E con quelle ali volavano, lontano. Sputati dal ventre del coccodrillo – l’elicottero sovietico Mi-24 – si libravano in aria per poi atterrare nel raggio di suolo più ampio possibile, ovunque capitasse. Uccelli di una guerra passata, ma capaci di attendere pazienti nel loro nido. In silenzio. A lungo.

Era stata un’emozione grande per il piccolo Mansour scoprire il nido di quell’uccelletto dietro una pietra che affiorava dal terreno. Un gioco mai provato. Vi si era avvicinato con fare cauto, come quando andava a caccia di lucertole. E sì, quella volta era riuscito a catturare anche quello strano uccello. Orgoglioso, lo aveva stretto tra le dita prima che potesse sfuggirgli. Voleva guardarlo, osservarlo bene. Per scrutarlo ancor più da vicino se lo era portato agli



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